L’impotenza della verità grida ancora, questa volta da Brescia dove il 14 aprile 2012, a 38 anni di distanza, sono stati assolti in appello tutti e 4 gli imputati della strage di piazza della Loggia. Assolti due neofascisti, un infiltrato dei servizi segreti e un ex generale dei carabinieri alto ufficiale dell’intelligence italiana.
Il 28 maggio 1974 una bomba nascosta in un cestino dei rifiuti (dopo le 7 del mattino) nella piazza simbolo della città, gremita per la manifestazione dei sindacati contro il terrorismo neofascista, provocò 8 morti e 102 feriti. A far luce sui colpevoli (mandanti ed esecutori) non sono bastati 1.500 testimoni e 900.000 pagine di verbali letti e riletti. Così quasi 40 anni sono passati invano senza ancora la parola definitiva, sempre che i parenti delle vittime vogliano inseguire ancora il sogno di giustizia ricorrendo in Cassazione: in caso contrario, per la giustizia italiana quella strage, come la stragrande maggioranza di quelle degli anni caratterizzati dalla strategia della tensione, non l’ha compiuta nessuno.
Chi erano gli imputati
Il primo è oggi un pensionato rodigino di 77 anni. Carlo Maria Maggi, nato il 29 dicembre 1934 a Villanova del Ghebbo, già responsabile negli anni Sessanta della cellula veneziana del movimento neofascista Ordine Nuovo e iscritto al Movimento Sociale Italiano, da cui venne in seguito cacciato. Nel 1987 subì una prima condanna a 12 anni per reato associativo nel processo per la strage di Peteano che il 31 maggio 1972 costò la vita a tre carabinieri (il brigadiere Antonio Ferraro di 31 anni e i carabinieri Donato Poveromo e Franco Dongiovanni di 33 e 23 anni) saltati in aria quando in provincia di Gorizia aprirono una 500 abbandonata per strada, attirati nella trappola da una telefonata. Nel 1988 Carlo Maria Maggi fu condannato a 9 anni per ricostituzione del Partito Fascista. Venne poi assolto (sentenza definitiva) per la strage di piazza Fontana (Milano 12 dicembre 1969) e per quella alla questura milanese (17 maggio 1973). Nella sua autobiografia (L’ultima vittima di piazza Fontana) si dichiara estraneo a tutte quelle accuse e al sospetto di essere stato l’ideologo stragista. Nel periodo delle prime stragi del dopoguerra e fino a prima del 2000 (quand’era responsabile triveneto di Ordine Nuovo) Carlo Maria Maggi era medico all’Ospedale geriatrico Giustinian di Venezia e medico di base nell’isola della Giudecca.
Il secondo imputato prosciolto è oggi un commerciante (import-export di pellami e comproprietario di alcuni negozi e aziende in Italia), di 65 anni. Delfo Zorzi, nato ad Arzignano (Vicenza) il 3 luglio 1947, nel 1966 entrò nella cellula di Ordine Nuovo divenendone presto il responsabile, a Mestre dov’era insegnante di judo nella palestra di via Felisati. Imputato della strage di piazza Fontana e assolto da ogni accusa in Cassazione nel 2005, fu rinviato a giudizio per la strage di piazza della Loggia a Brescia, ma nel 1975 poté lasciare senza problemi l’Italia trasferendosi definitivamente a Tokyo dove nell’89 prese la cittadinanza giapponese che lo protegge dal rischio di estradizione in Italia. Nel processo per la strage di piazza Fontana emersero testimonianze secondo cui Delfo Zorzi, che oggi in Giappone si chiama Hagen Roi, nascose nel laboratorio veneziano di pelletterie di famiglia (tra Spinea e Mirano) l’esplosivo gelignite, lo stesso impiegato dai terroristi sia per la strage di piazza Fontana sia per quella di piazza della Loggia.
Il terzo imputato è Maurizio Tramonte, oggi 60 anni. All’epoca dei fatti frequentava la sede dell’MSI di Padova come simpatizzante di Ordine Nuovo. Tra il 1972 e il 1976 svolse anche un ruolo molto attivo come informatore dei servizi segreti, il SID (Servizio Informazioni Difesa) diretti in quegli anni dal generale Vito Miceli. A proposito di Tramonte fu lo stesso generale dei SID Gianadelio Maletti (poi condannato per depistaggio dell’inchiesta sulla strage di piazza Fontana) a parlarne positivamente. Il ventenne partecipava alle riunioni in cui si pianificavano attentati e poi riferiva al maresciallo dei carabinieri Fulvio Felli, agente del SID, nome in codice Duca. In due di questi incontri di bombaroli (il 23 e 25 maggio 1974 in un albergo di Abano Terme) gli ordinovisti veneti decisero di compiere un grande attentato e Tramonte prontamente lo raccontò al carabiniere del controspionaggio che inviò quel rapporto a Roma. Ma il martedì della strage in piazza della Loggia, a Brescia c’erano pochi carabinieri, in quanto molti erano a un corso di formazione che di solito si svolgeva il sabato e il comandante del loro nucleo operativo, capitano Francesco Delfino, si trovava in Sardegna. Così la piazza in quella terribile giornata di pioggia, fu presidiata soprattutto dalla polizia che, dopo l’attentato, alle 12 fece lavare dai pompieri il sangue delle vittime (Per non rinnovare nei cittadini lo sgomento, si giustificò il vice questore Aniello Diamare) cancellando così anche i possibili indizi sui resti dell’esplosivo. Quando il sindacalista CISL Franco Castrezzati (non un tecnico della polizia scientifica, ma un uomo di buon senso) chiese spiegazioni, si sentì rispondere: Lei pensi a fare il suo mestiere.
Le informative di Tramonte (il solo a presentarsi alle udienze del processo) rimasero in un cassetto del SISMI (Servizio Segreto Militare) di Padova per 17 anni finché le trovò nel ’91 il giudice Guido Salvini. Ma su questo informatore – nome in codice Tritone – grava un ulteriore sospetto: è stato riconosciuto (col 92% di attendibilità da parte dei tecnici) in una foto scattata in piazza della Loggia a Brescia pochi minuti prima dell’esplosione.
L’ultimo imputato è l’ex generale dei carabinieri Francesco Delfino, oggi 75 anni, nato a Platì (Reggio Calabria). Condannato nel 2001 dalla Cassazione per essersi fatto pagare 800 milioni di lire dalla famiglia Soffiantini per ottenere la liberazione del congiunto rapito, è sempre stato vicino agli ambienti di estrema destra e il giudice Salvini lo ritiene legato, fin dagli anni Settanta, anche alla CIA. L’allora capitano Delfino che nel 1976 alla stazione di Milano arrestò il brigatista Giorgio Semeria grazie all’informazione di un padovano infiltrato tra i fiancheggiatori delle Brigate Rosse, secondo il brigatista pentito Alessio Casimirri avrebbe comunicato la notizia dell’imminente rapimento Moro non alla magistratura, ma solo al SISMIche di fatto non allertò l’interessato. Un mese dopo la morte di Moro, l’ufficiale fu promosso ad incarichi esteri (Ankara, Bruxelles, Beirut, Il Cairo, USA). Nell’inchiesta di Brescia il capitano Delfino ci finì dopo essersene occupato a livello investigativo, battendo la pista di una coppia di balordi neofascisti locali, Ermanno Buzzi e Angiolino Papa e obbligando pare una teste (la nuora del rapito Soffiantini) ad accusare falsamente Buzzi. Buzzi, accusato di essere stato l’autore della strage di Brescia, venne condannato all’ergastolo, ma nel 1981 venne strangolato in carcere dai neofascisti Pierluigi Concutelli (condannato per l’omicidio del giudice Vittorio Occorsio e oggi in regime di semilibertà) e Mario Tuti (accusato di duplice omicidio e di concorso nella strage del treno Italicus e oggi in libertà vigilata, come operatore in una comunità di tossicodipendenti). Ad incastrare l’ufficiale, le rivelazioni del neofascista Carlo Fumagalli capo dei MAR (Movimento d’Azione Rivoluzionaria). Per capire il clima di quegli anni basta dire che 10 giorni prima della strage di Brescia, nella stessa città saltò in aria un giovane neofascista, Silvio Ferrari, che in Vespa trasportava un ordigno; e altri 9 giorni prima sempre a Brescia era stato arrestato proprio Fumagalli mentre con altri 11 neofascisti stava trasportando esplosivi ed armi tra cui un bazooka, divise militari, due tende insonorizzate, 200 targhe e passaporti falsi.
Chi erano le vittime
Non sono più tornati a casa, da quella manifestazione pacifica del 28 maggio 1974, gli insegnanti Giulietta Banzi Bazoli (34 anni), Livia Bottardi Milani (32 anni), Luigi Pinto (25 anni), Alberto Trebeschi (37 anni) e Clementina CalzariTrebeschi (31 anni), gli operai Bartolomeo Talenti (56 anni) e Vittorio Zambarda (60 anni) e il pensionato Euplo Natali di 69 anni.
Una sola certezza: condannate le vittime
Anche questo processo si è chiuso, vergognosamente, senza colpevoli e con l’aggravante di una beffa indecente: gli unici ad essere stati condannati sono i familiari delle vittime che dovranno pagare le spese processuali. Non sarebbe giusto che fosse lo Stato a pagarle? Queste persone non solo hanno perso i loro cari, ma non hanno nemmeno avuto giustizia; e poi non va dimenticato che in tutte le stragi politiche che hanno insanguinato l’Italia permane molto più del solo sospetto che i mandanti siano uomini delle stesse istituzioni. Rimasti sempre impuniti.
Conosciuta la sentenza, il vice presidente dell’Associazione europea vittime del terrorismo, Salvatore Berardi, ha espresso dolore e sdegno. Ancora una volta dice l’ingiustizia ha trionfato, le vittime sono state emarginate, insultate e abbandonate dalle istituzioni. Ora nessun partito si ribella, nessuna autorità dice una parola, nessun giornale o trasmissione televisiva si impegna a denunciare uno scandalo del genere. Ora gli aguzzini, oltre a circolare liberamente, chiederanno (ed otterranno) i danni morali ed economici per essere stati processati (a loro dire) ingiustamente. I parenti delle vittime continueranno a piangere eternamente i loro cari senza speranza di avere verità e giustizia! Mi vergogno della giustizia, della politica, di questo povero Paese!
Livia, un sorriso da lontano, poi il boato
Ricorda Mauro Milani, presidente Associazione dei caduti di piazza della Loggia: Scendemmo in fretta da casa e, camminando velocemente, ci dirigemmo verso piazza della Loggia… Livia però aveva fretta, fretta di raggiungere i suoi amici e di compiere il suo destino. Mi fermai un attimo a parlare con quel mio compagno, tenendo però sempre d’occhio Livia, per non perderla tra la folla. Poi, andai verso di lei, che intanto aveva raggiunto il gruppo degli amici. Ero ormai vicinissimo, a pochi passi. Livia mi guardò, incrociammo lo sguardo, mi salutò e io risposi allegramente al suo saluto…. In quell’istante, lo scoppio. Erano le 10,12 del 28 maggio 1974. Da qual momento, ho due immagini fisse nella memoria: il suo saluto prima, il suo corpo squarciato dopo. La vedo ancora, lei è lì, con i nostri amici, mi sorride e saluta con la mano e, subito dopo, lo scoppio. Il boato lo sento ancora nelle orecchie, lacerante.Livia Bottardi, 32 anni, era sua moglie. (dal libro I silenzi degli innocenti di Giovanni Fasanella e Antonella Grippo) (nella foto orizzontale in bianco e nero, Mauro Milani la mattina della strage accanto al corpo della moglie ancora viva).
Lo stragismo, politica e 007
Ci sono prove che attribuiscono la responsabilità della strage all’estrema destra. Lo ha dichiarato il giudice del processo su piazza della Loggia, Giampaolo Zorzi. Ma ci sono anche prove, per le stragi maturate nei lunghi anni della strategia della tensione (detti anche anni di piombo) che mostrano come apparati dello Stato abbiano fornito coperture agli imputati e realizzato depistaggi. Ci sono sei alti ufficiali dei servizi segreti e dei carabinieri, condannati in via definitiva per questi reati che mostrano come i governi di allora, o parti di essi, avessero responsabilità precise nel creare attraverso il terrorismo di destra quel clima di terrore, nella speranza che gli italiani invocassero più repressione, leggi speciali e magari il ritorno a un regime a vent’anni dalla fine del fascismo, frenando così le velleità di nascita del primo centrosinistra.
I condannati sono il generale Gianadelio Maletti e il capitano Antonio Labruna (strage di piazza Fontana), il generale Dino Mingarelli e il colonnello Antonio Chirico (strage di Peteano), il generale Pietro Musumeci e il colonnello Giuseppe Belmonte (strage di Bologna).
Il generale romano Gianadelio Maletti (oggi 91 anni, in foto), già capo del controspionaggio italiano, fu condannato a 2 anni di carcere per favoreggiamento di Guido Giannettini e Marco Pozzan; il capitano Antonio Labruna, napoletano (morto a 72 anni) aiutante di Maletti al SID, subì 10 mesi di carcere per lo stesso reato.
Il colonnello Antonio Chirico responsabile dell’ufficio Ordinamento Addestramento, Informazione, Operazionidei Carabinieri di Udine e il suo superiore generale Dino Mingarelli comandante della legione Carabinieri di Udine subirono condanne a 10 anni per favoreggiamento e falso materiale e ideologico e per soppressione di prove (due bossoli di pistola sparati dagli attentatori di Peteano); nel 1964 Mingarelli aveva scritto una parte del Piano Solo che assegnava ai Carabinieri compiti di presa del potere (in caso di colpo di Stato comunista o per attuare un golpe? La commissione parlamentare d’inchiesta non riuscì a chiarirlo).
Il generale catanese Pietro Musumeci (oggi 91 anni, foto in bianco e nero), vice direttore dei servizi segreti militari SISMI, membro della loggia massonica P2 di Licio Gelli e in contatto con i capi neofascisti dei NAR, fu condannato a 10 anni per calunnia aggravata nel depistaggio delle indagini per la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980. Stessa condanna per il colonnello dei Carabinieri Giuseppe Belmonte, napoletano (oggi 83 anni) anch’egli del SISMI e della P2, responsabile col suo superiore, di aver cercato di deviare l’attenzione su una pista terroristica internazionale, facendo trovare il 13 gennaio 1981 una valigia piena di armi, esplosivi, munizioni, biglietti aerei e documenti falsi sul treno Taranto- Milano. La politica si è sempre affrettata a definire questi e gli altri esponenti dei servizi segreti come cellule impazzite di servizi segreti… deviati. Ma questi non erano dei semplici galoppini, erano ai vertici dei servizi.
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nessun responsabile ROBERTO BRUMAT”. Either way I personally appreciated the blog!
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Con tutto il dovuto rispetto, il vice questore si chiamava Diamare, non Viamare, e il capitano Delfino,, costrinse a farsa testimonianza la nuora di Soffiantini, non la figlia,
Cordiali Saluti
Grazie della precisazione, Anna, gentilissima. Ho provveduto a correggere. Cordialmente
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