Il papa in ferie ideò l’Inquisizione


Il papa in ferie ideò l’Inquisizione

Fu papa Lucio III durante il Sinodo di Verona del novembre 1184 a presentare per la prima volta i tribunali anti eresie. Mentre era in vacanza a Gavignano sui Colli romani nella residenza estiva papale di Ruscigli, papa Lucio III (Ubaldo Allucingoli nato a Lucca nel 1097, già frate cistercense) invece di riposarsi scrisse la Ab Abolendam (o bolla di Ruscigli) che per i reati di eresia aboliva il principio espresso dal Diritto Romano secondo cui non si poteva finire sotto processo in assenza di testimoni d’accusa. Fu proprio con questa bolla pontificia che ebbe inizio la storia dell’Inquisizione: il termine Inquisitio preso dal Diritto Romano significava appunto formulazione di un’accusa da parte del tribunale anche in assenza di denunce sostenute da testimoni attendibili.

Grazie a papa Lucio III (nel ritratto) l’eretico inquisito veniva condannato a bruciare vivo sul rogo senza possibilità di appello. Agli alti prelati giunti a Verona da ogni parte del Sacro Romano Impero, l’imperatore Federico Barbarossa garantì il suo appoggio contro le eresie che al tempo imperversavano: in questo modo esse divennero un reato tanto religioso quanto civile, da punire duramente. Il papa definì chi erano gli eretici: Catari, Patarini, Pasafini, Giosefini, Arnaldisti (seguaci di Arnaldo da Brescia); ma anche tutti coloro che predicavano abusivamente al di fuori dagli ordini religiosi.

La bolla di Lucio III prevedeva la consegna del reo al potere temporale: la punizione poteva essere estinta in presenza della pubblica abiura. Se invece il reato fosse stato reiterato l’eretico sarebbe finito direttamente sul patibolo.

 

Il Papa: Torturateli, senza ucciderli

Promulgazione delle leggi e delle regole che magistrati e funzionari secolari devono seguire contro gli eretici, i loro complici e protettori. Così il 15 maggio 1252 Innocenzo IV (Sinibaldo Fieschi conte di Lavagna nato nel 1195 a Manarola nelle Cinque Terre) (nel disegno sottostante), 180° pontefice di Santa Romana Chiesa, apriva la sua bolla Ad Extirpanda (Da estirpare) rivolta ai diletti figli, a capi di Stato e governanti, ministri e cittadini degli Stati e distretti di Lombardia, Riviera Romagnola e Marca Trevigiana, con benedizione apostolica. Un regolamento scritto a Perugia dove soggiornò un anno dopo il rientro dal Concilio di Lione del 1245, che per gli anni a venire e fino al Settecento divenne il “Vangelo” crudele che gli inquisitori spagnoli presero alla lettera quando trattavano i casi di eresia, magia, stregoneria.

La prima di queste 38 leggi precisa che chiunque detenga un potere locale lo perderà (insieme a terre e beni) se non rispetterà tali regole e mostrandosi quindi eretico.

La legge 2 permette a qualsiasi cittadino di impossessarsi dei beni di uomini o donne eretici.

Legge 3: ogni capo di Stato o governatore, entro 3 giorni dalla sua nomina, deve scegliere 12 onesti uomini di fede, più notai e servitori, due frati domenicani e due francescani, per catturare (personalmente o tramite altri) gli eretici e spogliarli delle loro proprietà.

La legge 10 precisa che tali funzionari, qualora subiscano danni, dovranno essere interamente risarciti dal governo locale e non dovranno mai fare accordi nell’espletamento delle loro funzioni repressive.

Al termine del mandato di 6 mesi ogni funzionario riceve dallo Stato 18 monete d’oro; ma anche un terzo delle proprietà confiscate agli eretici, mentre un terzo delle multe che essi pagheranno andrà ai funzionari minori quale unico compenso.

La legge 18 punisce i funzionari più misericordiosi: Dare conforto agli eretici significa incorrere nella punizione che lo Stato imporrà su sentenza degli ordini religiosi locali.

Chi non favorirà questo esercizio di giustizia sarà condannato a pagare 25 Imperiali. Chi, peggio, favorirà la fuga degli eretici, ostacolerà la raccolta di prove, l’arresto o la confisca dei beni, perderà per sempre ogni proprietà e la sua casa sarà rasa al suolo con divieto di ricostruzione.

La legge 21 precisa che lo Stato o il governatore deve provvedere alla detenzione degli eretici e custodirli a proprie spese in prigioni separate dalle altre e poste sotto il controllo di cattolici nominati dal vescovo.

Legge 22. Chiunque dichiari che gli eretici reo confessi non sono in realtà colpevoli di eresia, perde per sempre ogni proprietà.

 

Case rase al suolo e beni al popolo

Dalla legge 25 si entra nel merito dei trattamenti a cui vanno sottoposti gli eretici. Il capo di Stato o governatore deve obbligare tutti gli eretici arrestati, senza però ucciderli o rompergli le braccia o le gambe, a confessare i loro errori, accusando eventuali altri eretici, persone che hanno sedotto e chi li ha aiutati, ospitati e difesi. Sono sottoposti agli stessi obblighi dei delinquenti comuni in quanto gli eretici sono veri rapinatori e assassini di anime e ladri dei sacramenti di Dio e della fede cristiana.

La legge 26 precisa che All’eretico, maschio o femmina, deve essere rasa al suolo la casa di proprietà e tutte le altre case possedute nel vicinato, mentre i beni trovati in esse saranno distribuiti alla popolazione e apparterranno a chiunque se li porti via. Se invece gli eretici abitavano in affitto, il padrone di casa, infamato per l’eternità, deve pagare al governo 50 Imperiali e se non è in grado di farlo, subirà l’ergastolo.

Naturalmente Chi aiuterà gli eretici non sarà ammesso a cariche pubbliche, né ad affari pubblici, né potrà partecipare alle elezioni o testimoniare in un processo legale; e non gli sarà concesso lasciare nulla in eredità e nemmeno ereditare alcunché. Inoltre nessuno sarà tenuto a rispettare accordi commerciali con lui; e se per caso questi è un giudice, perderà l’incarico come pure se è un avvocato; se invece è un notaio, i documenti legali da lui redatti saranno assolutamente privi di validità. 

Legge 28. I nomi di tutti gli uomini resi infami dall’eresia, vanno scritti in una forma e in un modo coerente in quattro libri, di cui uno va al governo, un altro al vescovo diocesano, il terzo ai frati domenicani e il quarto ai francescani; e i nomi di queste persone devono essere letti ad alta voce tre volte l’anno in una solenne cerimonia pubblica.

Legge  29. Chi ha il potere deve tenere attentamente sotto controllo figli e nipoti degli eretici e chi li ha ospitati, difesi e aiutati: non saranno più ammessi a vicende pubbliche o cariche pubbliche.

La Legge 31 impone alle autorità laiche di inviare Un funzionario scelto dal Vescovo assieme ai suddetti inquisitori ottenuti dalla Sede Apostolica, tutte le volte che lo desiderano, nel territorio da controllare. Questo funzionario costringerà tre o più testimoni affidabili (o l’intero vicinato) scelti dagli inquisitori, a testimoniare agli stessi inquisitori se hanno scoperto degli eretici, o se gli eretici celebrano i riti in riunioni segrete, o si fanno beffe della vita religiosa dei fedeli e dei loro costumi. I testimoni potranno denunciare chi è stato sedotto dagli eretici, chi li ha difesi, aiutati o ospitati.

Legge 32. Entro 10 giorni dall’accusa, il capo di Stato o governatore deve completare i seguenti compiti: distruzione delle case, imposizione delle multe, consegna e divisione degli oggetti di valore trovati o sequestrati. Entro 3 mesi deve incassare tutte le multe in moneta e dividerle nel modo che verrà indicato qui di seguito, e condannare per delitto coloro che non possono pagare, e tenerli in prigione finché non provvederanno. 

Legge 32. Nessuna di queste sentenze o punizioni imposte a causa dell’eresia deve, né a seguito di pubblica riunione, consiglio dei consiglieri, né per alcun tipo di protesta popolare o per l’innata umanità di coloro che hanno autorità, essere in alcun modo rinunciata o perdonata.

Legge 33. Il capo di Stato o governatore deve dividere tutte le proprietà degli eretici che sono state sequestrate o scoperte dai suddetti funzionari e le ammende inflitte a questi eretici, nella forma e nelle modalità seguenti: un terzo deve andare al governo dello Stato o distretto; il secondo come ricompensa andrà ai funzionari che hanno gestito ogni caso particolare; il terzo sarà depositato in un luogo sicuro a disposizione del vescovo e inquisitore diocesano, da spendersi come riterranno opportuno per promuovere la fede ed estirpare gli eretici.

Legge 34. Se si cercherà di abolire, ridurre o modificare uno qualsiasi di questi statuti senza particolare autorità dalla Sede Apostolica, il capo di Stato o governatore del distretto sarà considerato infame mecenate degli eretici e verrà multato di 50 Imperiali. Qualora il capo dello Stato non fosse in grado di pagare, verrà dichiarato fuorilegge, marchio che sarà rimosso solo dietro pagamento del doppio della multa stabilita.

La Legge 35 avverte che il capo di Stato o governatore nei primi dieci giorni del suo mandato deve indagare se il predecessore ha fatto in proposito il suo dovere  e deve punire gli inadempienti.

A inizio e a metà mandato questi statuti, regolamenti e leggi devono essere letti solennemente ad alta voce in un’assemblea pubblica e anche in luoghi al di fuori della giurisdizione o distretto, e vanno esposti se lo vorranno il Vescovo o gli inquisitori e i frati.

 

Il Tribunale dell’Inquisizione di Palermo

A palazzo Chiaramonte Steri di Palermo si visita l’unico sopravvissuto tra i tanti tribunali dell’Inquisizione che operavano in Italia, e si entra nelle nove celle in cui in 181 anni (1601 – 1782) passarono 6.393 dei 7.161 imprigionati per eresia e reati connessi: in questa come nelle precedenti carceri speciali del capoluogo siciliano esistenti fin dal 1300 quando inizialmente le eresie venivano trattate nel convento di San Domenico.

In Sicilia la fetta più grossa dei giudizi dell’Inquisizione riguardò il reato di ebraismo: 2.110 gli ebrei processati perché non volevano cambiare religione; seguono 1.040 tra maomettani e miscredenti, 941 maghi e streghe, 705 eretici, 580 bestemmiatori, 499 protestanti, 485 bigami, 365 che oltraggiarono il Sant’Uffizio, 206 che compirono sacrilegio, 188 religiosi che praticarono oscenità, 13 sodomiti più 65 casi non identificati.

Tra le 494 streghe e i 427 maghi figuravano guaritori, indovini, chiromanti, scacciatori di malocchio, fattucchiere, ritenuti a vario titolo seguaci del demonio.

Dopo la primitiva Inquisizione avviata nel Sacro Romano Impero, gestita a Palermo dal vescovo e dopo quella del Duecento che prevedeva inquisitori delegati dal papa, i re di Sicilia furono considerati legati papali e come tali avevano il potere di gestire le materie ecclesiastiche. Nel 1579 Filippo II di Spagna istituì il Tribunale della Monarchia e ogni atto della Santa Sede aveva valore solo se controfirmato dal viceré spagnolo. La Spagna aveva esportato già nel 1487 in Sicilia la propria Inquisizione che durò fino al 1734, retta da inquisitori esclusivamente spagnoli. Fu l’unico tribunale dell’isola a non avere come giudici dei cittadini siciliani: la qual cosa venne mal sopportata dalla popolazione. A partire dal 1513 l’Inquisizione Spagnola bruciò sul rogo 39 ebrei colpevoli di non essersi sinceramente convertiti al cristianesimo per salvarsi dall’espulsione e a nulla valse la protesta del Parlamento siciliano, anzi gli inquisitori iniziarono a trattenere per sé i beni confiscati e quindi divennero più forcaioli di prima. Bastava una delazione per finire sotto tortura dopo un primo interrogatorio, la deposizione dei testimoni e la ricognizione sui luoghi indicati; la difesa d’ufficio era pro forma e tutto avveniva in gran segreto. Come accuse veniva anche usato ciò che si diceva in confessionale e le sentenze non prevedevano appello.

Tra il 1713 e il 1782 la gestione di questa speciale giustizia passò prima in mano ai Savoia (7 anni), poi agli Asburgo (14 anni) e negli ultimi 48 anni a un tribunale autonomo.

 

Migliaia di spie per denaro

L’Inquisizione spagnola agevolò un sistema di delazioni molto funzionale al risultato: facendo la spia i cittadini venivano ricevevano in cambio i beni sequestrati alla vittima e potevano anche dichiarare il falso senza problemi. Le persone pronte a tradire vicini di casa, amici e perfino parenti (anche per questioni di eredità) divennero ben presto migliaia anche perché così facendo la giustizia spagnola gli garantiva pure l’immunità da qualsiasi delitto. Così era sufficiente che di sabato il camino di una casa non fumasse (quindi si paralizzassero le attività familiari, evidentemente per lo shabbat) per denunciare come ebrea la famiglia che viveva lì e per ottenerne i beni.

Diverso il caso di quel padre che accusò il figlio quindicenne di aver inneggiato al diavolo (nel gergo locale si diceva abitualmente santo diavolo) ottenendo così per lui una pena più mite: evidentemente aveva saputo dell’imminenza dell’arresto del ragazzo e giocò d’anticipo, anche se il figlio si fece comunque qualche mese di dura prigione.

 

La tortura della corda

La confessione veniva estorta con la tortura: in una minuscola stanza al primo piano della prigione di palazzo Chiaramonte Steri nel quartiere islamico della Kalsa (l’eletta) a Palermo, il prigioniero con le mani legate dietro la schiena veniva issato su una trave e lasciato cadere tra atroci sofferenze e slogature a braccia e spalle. Restava in quella posizione a gridare per 30 minuti. Prima della tortura un medico ne accertava le buone condizioni fisiche, dato che il reo non doveva morire sotto tortura. Se confessava (il vero o il falso non importava) c’era la condanna: solitamente a remare almeno 7 anni in catene sulle galere; oppure si veniva esiliati o si finiva all’ospedale, in convento o all’ergastolo o sul rogo.

Se invece il detenuto resisteva alle torture e quindi, secondo la credenza diffusa, non aveva mentito e per questo Dio l’aveva salvato, gli inquisitori gli riservavano la cerimonia dell’Auto da fè a cui seguiva comunque un duro castigo.

 

Scortichi un albero? Un anno di carcere

Va detto che nella Sicilia tra il Cinque e il Settecento gli spagnoli punivano abbastanza duramente anche i reati civili molto marginali. Così nelle antiche carte si legge: frustate e 4 tratti di corda a chi farà cattivo uso dell’acqua avuta in concessione; i cassieri della banca Tavola di Palermo che non registrano gli incassi, devono rifonderli di tasca loro e perdono la paga di un anno; se poi il fatto si ripete sono condannati a tre anni di galea. Chi nel Settecento viene trovato a rompere i fanali dell’illuminazione sarà punito con frustate, 20 pugni e un anno di carcere; chi invece secca o scortica gli alberi piantati fuori porta, subirà 4 tratti di corda e un anno di prigione (se si tratta di un nobile basterà che paghi 200 once).

 

Auto da fè

Era la pubblica riabilitazione che avveniva in piazza. Per mondarsi delle sue colpe l’accusato sfilava in processione tenendo in una mano una candela e nell’altra un ramo di palma. Indossava il sambenito, un sacco di lana benedetto che al termine della cerimonia veniva conservato nella chiesa di appartenenza come ammonizione per l’infamia commessa contro la religione. A Palermo i roghi per i recidivi venivano appiccati alla Marina vicino al tribunale o fuori del convento di Sant’Erasmo poco distante o davanti alla Cattedrale. Secondo gli studi fatti da Maria Sofia Messana furono pochissime le streghe bruciate in Sicilia e le donne furono sottoposte raramente a pesanti torture. Riguardo alle torture venivano annotate solo quelle consentite, ma probabilmente i carcerieri usavano la mano pesante…

 

Le pareti delle celle parlano…

Le pareti del carcere dell’Inquisizione di Palermo parlano della sofferenza e della speranza affidate alle dita, al carboncino o a punte di legno inzuppate nella propria orina o bagnate di saliva e del coccio rosso del pavimento delle celle. L’unica luce veniva (dove c’era) da una minuscola alta finestrella e così i poveretti disegnavano e scrivevano sulle pareti usando a volte un mozzicone di candela. Quei muri rimasti per centinaia d’anni coperti di calce e restaurati solo nel 2005 dopo che erano venuti alla luce nel 1906, ci consegnano graffiti di racconti spesso religiosi, scritti in latino, italiano del Seicento, siciliano e perfino inglese. Parlano di condannati colti, spesso religiosi; ci sono invocazioni, poesie e preghiere. Compaiono Cristo, sante e santi anche poco noti; un detenuto chiama la sua cella Questa camera si chiama San Rocco siate devoti. Qualcuno spera: Ogni peccato al fin giustizia aspetta; qualcuno traduce Dante in siciliano: Nixiti di spiranza vui chi intrati; qualcuno dice O tu che entri qui cosa speri?

Pochissimi i disegni a sfondo sessuale che potevano portare un po’ di sollievo ai carcerati: venivano fatti nel luogo più oscuro della cella o, come quello della donna nuda che si accarezza il pube, li realizzavano nell’incavo sopra il buco che serviva da gabinetto.

Di alcuni autori di conosce il nome: Francesco Barone da Monreale che da Palermo finì in prigionia a Pantelleria e infine nel castello di Gaeta dove morì; G.F.M. Migliaro; Franco Mannarino; Paolo Confa e Paolo Maiorana; Giovanni Andres e Giovanni Battista Guido; c’è un Giuseppe carcerato innocente e un Musiumeci pingebat (dipingeva).

E’ anche rimasta la grande mappa della Sicilia tracciata da un cartografo che invitava chi sarebbe venuto dopo di lui a completare la sua opera che riteneva imprecisa. E ci sono disegni di vasi di fiori che si ripetono grazie all’uso di stampi: potrebbero forse essere stati commissionati ad artigiani dagli stessi inquisitori per rendere meno doloroso l’ambiente del pentimento.

Un detenuto lasciò in siciliano questo pensiero: Pensa bene alla morte. Nel mondo non c’è alcun rimedio. Vi avverto che qui danno tratti di corda e… Stai attento che qui usano la corda… Vi avverto che qua prima danno la corda… Faccio conto che sei venuto ora. Innocente non accusarti; se ti accusi non giustificarti; rivela la verità e non confidare nel Signore. Fai l’asino. Morte, dov’è la tua vittoria? 

 

Ebrea la prima vittima in Sicilia?

Torniamo indietro alla prima condanna di eretici in Sicilia. 18 agosto 1487. Il frate domenicano Antonio la Рeña, primo inquisitore inviato dalla Spagna dal capo in testa degli inquisitori Tommaso Torquemada, condanna a morte l’ebrea spagnola Eulalia Tamarit (e la sorella Valentina, in contumacia) emigrata da Saragoza dove la famiglia di suo marito e cognato, il ricco Aloysio Sanchez da cui aveva avuto 6 figli maschi e 6 femmine, era sospettata dell’omicidio dell’inquisitore Pedro Arbués de Epila avvenuto nella cattedrale di Saragoza il 17 settembre 1485. Una volta in Sicilia, Aloysio Sanchez assieme all’ebreo converso Ambrosio Levi nel 1491 aprì una nuova banca e lo stesso anno due suoi figli sposarono i figli di Pietro Augusti, maestro razionale del tesoro di Sicilia (l’amministratore degli affari finanziari e fiscali della Corte spagnola). Pochi anni dopo questa banca di ebrei ebbe così successo da provocare il fallimento della banca del pisano Pietro Alliata, divenendo la finanziatrice nientemeno che dell’Inquisizione spagnola in Sicilia a cui prestò 730 ducati. Alcuni storici mettono in dubbio che Eulalia Tamarit sia stata effettivamente uccisa sul rogo: sia perché sembra ricomparire nel 1513, sia perché il marito divenne un ricco banchiere e i suoi figli fecero fortuna nella potente comunità spagnola siciliana.


La vendetta di fra’ Diego

In quelle celle palermitane c’è la storia di fra’ Diego La Matina, frate agostiniano originario di Racalmuto (1622 – 1658) arrestato nel 1644 come eretico e brigante e auto accusatosi al Sant’Uffizio per non finire schiavo rematore sulle galere. Dopo tre processi, la condanna a 5 anni sulle galere, il 7 agosto 1649 organizzò una sommossa, per la quale lo condannarono a restare murato nelle segrete di palazzo Steri dove il frate dopo lungo isolamento nella quasi totale oscurità, manifestò sintomi di pazzia: per sua sfortuna – risulta dagli atti conservati a Madrid – vennero considerate simulazioni. Nel 1656 riuscì a fuggire, ma fu catturato in una grotta del suo paese. Ricondotto nella stessa prigione lo sottoposero a molte torture tra cui quella del cavalletto che gli arrecò lussazioni agli arti e lo strappo dei muscoli. La giustizia spagnola commutò la condanna capitale all’ergastolo da scontare in un convento scelto dagli inquisitori. Questi ultimi però preferirono tenerlo sequestrato tenendolo ammanettato ai polsi e incatenato alle caviglie a una sedia di castagno (riprodotta oggi nella sua cella). La sua rabbia esplose sei mesi dopo e il 24 marzo 1657 grazie alla sua possanza fisica, si liberò dalle manette. Quando l’inquisitore monsignor Juan Lòpez de Cisneros, conscio del pericolo, fece portare il detenuto in una stanza per il colloquio, il frate afferrò dal tavolo del segretario un ferro da tortura e lo colpì furiosamente per tre volte alla testa, poi l’afferrò per la gola fino al sopraggiungere degli ufficiali. Fra’ Diego riuscì comunque a trascinare l’inquisitore sanguinante sulle scale rotolando con lui nel tentativo di farlo precipitare, ma questi si aggrappò alla ringhiera. De Cisneros morì 11 giorni dopo, a 37 anni. Considerandolo un martire le autorità spagnole avrebbero voluto farne un santo, così com’era accaduto per altri due inquisitori morti ammazzati. Il primo fu il frate domenicano san Pietro da Verona (ucciso il 6 aprile 1252 a colpi di roncola dall’eretico Pietro da Balsamo, detto Carino): papa Innocenzo IV lo proclamò santo 13 mesi dopo la morte; l’altro fu l’inquisitore maggiore di Aragona (nominato dallo stesso TorquemadaPedro de Arbués detto mastro Epila, (laureato a Bologna in Teologia e Giurisprudenza) accoltellato a morte il 17 settembre 1485 da otto sicari mentre inginocchiato pregava nella cattedrale di Saragoza. In quest’ultimo caso fu la durezza delle condanne inflitte a molti conversos (ebrei convertiti) a decretarne la morte avvenuta tre giorni dopo. Ne seguì una violenta repressione.

 

Processo spettacolo con buffet

Siccome papa Pio V nel Cinquecento aveva chiaramente scritto che arrecare offesa a un inquisitore significava farlo alla Chiesa e comportava la morte, il 17 marzo 1658 a 37 anni (stessa età della sua vittima) il diacono  Diego La Matina dopo un ulteriore anno di feroce detenzione fu portato sul sagrato della Cattedrale per l’Auto da fè in quanto eretico formale, recidivo e omicida di un inquisitore. Al processo arrivò legato su una sedia, col sambenito che portava disegnate le fiamme rosse dalle punte rivolte in basso e con una mitria in testa, di uguale disegno e colore. Ad assistere allo spettacolo, oltre al popolino, le autorità palermitane e di tutto il regno, baroni ed ecclesiastici, tutti accomodati in appositi palchi; l’arcivescovo di Palermo don Pietro Martinez Rubio, seguì l’evento comodamente seduto al balcone dell’arcivescovado. La lunga processione (non andava processato solo fra’ Diego) era scortata dagli inquisitori a cavallo e da due schiere di moschettieri spagnoli e di alabardieri tedeschi.

Condannato a morte, l’indomani all’alba fra’ Diego La Matina lo portarono davanti al convento di Sant’Erasmo (oggi piazza Tonnarazza) luogo delle esecuzioni, vicino al mare e poco distante dal carcere, dove l’attendevano un’alta catasta di legna e moltissimi palermitani. A nulla valse l’estremo tentativo di alcuni preti di farlo redimere in punto di morte. Negli anni furono almeno nove i teologi che avevano invano cercato di farlo recedere dalla sua eresia. Come previsto le sue ceneri si dispersero nel vento, un po’ nel Tirreno, un po’ sui tetti.

Più che mai, come ebbe a scrivere alle autorità di Madrid l’arcivescovo – inquisitore di Valencia, Luis de los Cameros (nell’immagine) che condannò a morte il diacono, si era superato in grandezza ogni precedente processo. Insomma la fede aveva trionfato e i siciliani avevano testimoniato la loro religiosità. Ne erano prova lo scenario e la pompa magna: gradinate sul perimetro del sagrato, palchi per le autorità, palchetto per i musicisti, altare al centro per la celebrazione del processo, quinte protette da tendaggi e damaschi alle spalle dei palchi, dove consumare il sospirato rinfresco.

 

2 risposte a “Il papa in ferie ideò l’Inquisizione

  1. Non lo so caro Franco. Ciò indica che la supposta santità dei pontefici (convintamente creduta da molti) è una “pia” illusione. Perché mai la Chiesa di Roma, che dalle origini al 1800 ha combattuto con le armi in pugno, dovrebbe essere considerata la depositaria dei principi di pace e tolleranza proclamati da Cristo? Evidentemente c’è qualche conto che non torna e troppi nei secoli si sono arrogati il diritto di essere i legittimi rappresentanti di Dio in terra, mentre combattevano con forza contro le sue leggi. Confondere il potere con la religione è un difetto comune a troppe religioni, che con questo caos mentale hanno ucciso direttamente o indirettamente migliaia di donne e uomini.

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