
Non ci pensiamo mai, ma non è che chiamiamo il nostro presidente Sergio di Mattarella o il calciatore Francesco di Totti, per indicare – come invece avveniva un tempo – chi era il padre. Il di inteso come figlio di non si usa ormai da qualche secolo tranne per quei cognomi che da centinaia d’anni sono rimasti composti dal Di o dal De (maiuscolo o minuscolo o apostrofato). Eppure di un grande dell’arte rinascimentale, Raffaelo Sanzio, continuiamo da sempre a fornire un cognome che già anticamente venne storpiato. La colpa probabilmente è dovuta alla posteriore italianizzazione del genitivo. Dovremmo in realtà chiamarlo Raffaello Santi, perché quello era il cognome di suo padre, l’artista Giovanni Santi, pittore della signoria dei Montefeltro che morì quando il suo figlio unico aveva 11 anni (la moglie Magia di Battista Ciarla era morta 3 anni prima). All’epoca – ma l’usanza è rimasta almeno fino a tutta la metà del Novecento – i libri parrocchiali che fin da fine Trecento in alcune città registravano i battesimi, riportavano i nomi in latino (io stesso risulto registrato come Robertus): quindi il cognome del piccolo Raffaello nato a Urbino il 28 marzo 1483, fu probabilmente registrato dal prete come Sancti, genitivo latino che significava di Santi (nel senso della discendenza); oppure quel prete (o un posteriore scrivano) l’avrà mutato al nominativo in Sanctius che si leggeva sanzius da cui poi l’italianizzazione Sanzio.
Ma a pensarci bene, anche il cognome del padre non avrebbe dovuto essere Santi giacché quel termine era l’italianizzazione di Sancti con significato di di Santo: quindi il vero “cognome” della famiglia paterna, secondo me, doveva essere Santo al singolare come probabilmente era soprannominato qualcuno degli avi; appellativo che rimase poi a indicarne i discendenti. Quindi il vero nome completo del pittore, dovrebbe essere Raffaello Santo.

E Raffaello come firmava i suoi lavori? In latino: RAPHAEL VRBINAS (Raffaello di Urbino), usando l’indicazione di provenienza in quanto molto più prestigiosa, dal momento che evocava immediatamente la casata dei Montefeltro piuttosto che il cognome paterno, sconosciuto fuori dalla signoria che aveva giurisdizione su parte delle Marche, della Romagna e dell’Umbria. Lo si vede molto bene il suo nome “scolpito” sfrontatamente al centro di un suo capolavoro – Sposalizio della Vergine – dipinto a soli 21 anni: segno di una personalità che non intendeva certo mettersi in secondo piano; in primo piano sul braccio della Fornarina in una posizione immediatamente visibile, sia per il colore azzurro e oro sulla fascia, sia perché è accanto al seno nudo della protagonista che era la sua amante e modella preferita: Margherita Luti, all’epoca del quadro ventenne. Aveva conosciuto la bella figlia di un fornaio senese di Trastevere, poco distante da villa Farnesina dove l’artista stava lavorando.

Per lei il pittore fece mari e monti pur di averla come modella e addirittura rinviò sine die il proprio matrimonio con la promessa sposa Maria Bibbiena nipote del cardinal Bernardo Dovizi. La ragazza morirà nel 1522 a 22 anni, due anni dopo la morte del pittore. Nella corrispondenza invece Raffaello scriveva raphaello santi dipintore. Che poi Raffaello Santo sia nato (come sembra) alle 3 di notte del Venerdì Santo, non è che il rafforzamento di questa suggestione a cui mi piace unire l’affermazione del pittore francese Eugène Delacroix il quale scrisse che Raffaello era la manifestazione terrestre di un’anima che parla con gli dei.
Il principe parigino che salvò un Raffaello

La prima firma di Raffaello (Raphael Urbinas) su una sua opera è del 1504 quando l’artista aveva solo 21 anni. La tela è quella del celebre Sposalizio della Vergine, commissionato dalla famiglia Albizzini per la loro cappella di S.Giuseppe nella chiesa di S.Francesco a Città di Castello. Se questo capolavoro è ancora in Italia (Pinacoteca di Brera, Milano) lo si deve a un principe francese, Eugenio di Beauharnais nato a Parigi nel 1781, nominato da Napoleone viceré del Regno d’Italia. Fu lui ad aver acquistato l’opera nel 1806 dall’Ospedale Maggiore di Milano che due anni prima l’aveva avuta in eredità dal conte Giacomo Sannazzari della Ripa, mercante d’arte milanese, il quale per 50.000 lire del 1801 l’aveva comprata dal generale napoleonico Giuseppe Lechi (nato ad Aspes nel bresciano quand’era sotto il dominio della Serenissima Repubblica di Venezia). A Lechi il quadro era stato invece regalato nel gennaio 1798 dal marchese Guido Bufalini neo presidente del municipio di Città di Castello per ringraziare lui e la Legione Bresciana inviata da Bonaparte, per aver fondato la Repubblica. Per un signore come di Beauharnais che come viceré d’Italia possedeva 137 palazzi di città e 2.300 tenute agricole, avere o non avere anche un quadro di 170x 117 cm di un ennesimo pittore del Rinascimento italiano (per quanto famoso), in fondo contava poco: così immaginando che quella fosse la collocazione migliore, lo consegnò all’Accademia delle Belle Arti di Milano.