Canzone d’amore ai tempi di Galileo


Come si dichiarava il proprio amore e si esprimeva la gelosia quattrocento anni fa al tempo di Galileo Galilei? Allora come oggi ci pensavano le canzoni a dare armonia alle passioni della gente, come possiamo sentire in questa canzone dell’epoca: Lamento della Ninfa. Musica di Claudio Monteverdi, testi di Ottavio Rinuccini. Esegue il gruppo Phoeme Armonique.  Siamo nella Firenze di inizi Seicento, retta da due donne (Maria Maddalena d’Austria, vedova di Cosimo II e dalla suocera di lei Cristina di Lorena) quando il poeta fiorentino Ottavio Rinuccini compone questi versi che uscirono senza titolo nel 1622 (l’anno dopo la sua morte avvenuta a 59 anni) e saranno poi musicati dal compositore cremonese Claudio Monteverdi (morto nel 1643 a 76 anni). Il brano a 4 voci (canto, doi tenori e basso) fu pubblicato nel 1638.

In questa passacaglia (modello musicale spagnolo popolare fondato sulla continua variazione di una nota dominante tipica dei salmi nei canti gregoriani, molto apprezzato dalla musica colta barocca) la ninfa si dispera per essere stata abbandonata ed è consolata da un coro di tre pastori. La tonalità del suo dolore è espressa dal cosiddetto basso continuo che diventa uno dei canoni della musica moderna seicentesca. Parole originali che ho tradotto in italiano corrente (tra parentesi il coro).


Amor (dicea),  Amor (il ciel mirando, il pie fermo). Amor, Amor, dov’e la fe’ ch’el traditor giurò?

(miserella). Fa’ che ritorni il mio amor com’ei pur fu, o tu m’ancidi ch’io non mi tormenti più (miserella ah più, no, tanto gel soffrir non può). Non vo’ più ch’ei sospiri se non lontan da me. Che i martiri più non dirammi affé (Ah miserella Ah più non so) perché di lui mi struggo tutt’orgoglioso sta. Che si s’el fuggo ancor mi pregherà (miserella, ah, più, no tanto gel soffrir non può). Se ciglio ha più sereno colei ch’el mio non è, già non rinchiude in seno amor si bella fè (miserella, ah, più, no tanto gel soffrir non può). Né mai sì dolci baci da quella bocca havrai né più soavi. Ah taci taci, che troppo il sai. (miserella)

Amore (diceva), amore (guardando il cielo con piede fermo). Amore amore, dov’è la fedeltà che lui, traditore, giurò? (poveretta). Fa’ che il mio amore ritorni com’era. O tu uccidimi così non mi tormenterò più (poveretta, ah più non può soffrire tanto gelo). Non voglio più che lui sospiri se non lontano da me. Che le sofferenze subite per davvero non mi dicano più (ah poveretta, ah non so più) perché mi dispero per lui che vive tutto orgoglioso: che certo se me ne allontano, mi pregherà ancora (poveretta, ah non può più soffrire tanto gelo).

Se lei ha lo sguardo più gioioso del mio, non ha però nell’animo l’amore che fa tanto bella (poveretta, ah non può più soffrire tanto gelo). Da quella bocca non avrai mai baci così dolci e più soavi di questi. Ah taci, taci che lo sai fin troppo bene. (poveretta)

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