
In questi giorni si parla molto di carcere, così voglio raccontare un breve episodio di cui sono stato protagonista dieci anni fa. Ero stato invitato in carcere assieme ad Enrico Vanzini, sopravvissuto 7 mesi a Dachau dove aveva perso 56 kg, era stato picchiato e costretto a bruciare nei forni crematori i cadaveri dei suoi compagni e una volta perfino un internato ancora vivo. Quel giorno lui in prigione ha portato la sua terribile testimonianza e io ho mostrato il mio documentario sulla sua storia, comprese le immagini di quel lager 70 anni fa e oggi, con la sua biografia L’ultimo sonderkommando italiano (Rizzoli editore). I detenuti che nella biblioteca del Due Palazzi di Padova avevano chiesto di partecipare a quelle due ore in nostra compagnia, sono rimasti scioccati. Noi portavamo il vissuto lontano di chi era stato imprigionato per il solo fatto di essere italiano (quindi nemico dei tedeschi); loro stavano lì per delitti commessi, in qualche caso anche omicidi. Ma sia loro sia Enrico si portavano addosso il peso dell’angoscia e della privazione della libertà.

Al termine si è alzato uno dei ragazzi che ha ringraziato Enrico per le sue parole prive di odio e piene di quella speranza che a 22 anni gli aveva permesso di resistere alla tentazione di farla finita gettandosi – come altri facevano – sui reticolati elettrificati. Il detenuto ha detto: “Grazie per averci raccontato che lei aveva speranza. Noi qui sappiamo quando finirà la nostra detenzione, ma lei non lo sapeva, non sapeva se sarebbe mai tornato a casa”. Poi si sono messi in fila per stringergli la mano e abbracciarlo. Molto commovente.
Un’altra cosa mi ha toccato quel giorno: la rottura di un mio pregiudizio, venuta da un minuscolo episodio. Mentre aspettavamo l’inizio della proiezione, io ed Enrico parlavamo in piedi in mezzo alle sedie dove i detenuti di ogni età stavano prendendo posto; e quando ci passavano davanti, immancabilmente dicevano “Scusate” o “Permesso”. Non me l’aspettavo tanta cortesia in quel posto. Mi ha fatto bene scoprire che avevo (come forse tanti) un’idea errata e stereotipata delle persone che sbagliano gravemente nella loro vita, come se fossero sempre e tutti dei feroci asociali. Tutto questo accadeva mentre fuori dalle sbarre i gabbiani varcavano continuamente i confini tra la libertà e la sua negazione, per andare e venire come se quel posto non avesse muri.
Uscendo, l’unica nota stonata di quella mattina tanto speciale. E non venne da un detenuto. Ovviamente gli agenti sapevano cosa saremmo andati a fare quel giorno, e uno di loro, prima di premere il pulsante per l’apertura dell’ultima porta, ci squadrò a lungo con un’espressione che non stento a definire di odio. Rimasi stupito e scosso. Quando ne chiesi conto a chi ci aveva accompagnato, mi fu detto di non preoccuparmi, quel tipo era fatto così: si autodefiniva nazista.