6 italiani con Custer


Gli italiani del 7° Cavalleggeri

Quando avevo 5 anni giocavo con i soldatini del 7° Cavalleggeri. Erano molto belli e grandi, in plastica morbida e senza piedistallo in modo da farli sembrare veri; le impeccabili giubbe blu, i cavalli con le insegne del reggimento da cui potevo disarcionarli qualora fossero rimasti feriti o uccisi: cosa che accadeva spesso nonostante fossero loro gli eroi. Sì perché al tempo i buoni erano gli invasori e i cattivi gli invasi.

Avevo Custer col cappello bianco, un cavaliere al galoppo con la spada sguainata, un porta bandiera e il trombettiere. Pochi, perché evidentemente, vista la loro perfezione, costavano molto. Mai avrei potuto immaginare che proprio quel trombettiere che non smetteva mai di suonare, fosse un italiano. Giovanni Martini della provincia di Salerno.

 

Quando il 25 e 26 giugno 1876, ad una settimana dalla celebrazione del primo centenario degli Stati Uniti, il 7° reggimento Cavalleggeri del tenente colonnello Custer (foto sopra) fu annientato dai nativi americani nel Montana attorno al fiume Little Bighorn, tra i soldati americani del contingente c’erano almeno sei italiani: Carlo Camillo Di Rudio di Belluno, Gian Carlo Martini di Salerno, Agostino Luigi Devoto di Genova, Giovanni Casella di Roma, Francesco Lombardi di Napoli, Felice Vinatieri di Torino. Ma mentre due di loro (componenti della banda musicale) si trovavano nelle retrovie, il fatidico 25 giugno sul campo erano presenti Di Rudio, Martini, Devoto e Casella. Di Martini, Di Rudio e Devoto, abbiamo le fotografie: tutti con baffi d’ordinanza. In quella formazione di 793 tra soldati e civili inviati nella spedizione nelle Black Hills la compagine italiana era molto esile. C’erano ben 320 stranieri: in testa 129 irlandesi e 127 tedeschi seguiti da canadesi, svizzeri, inglesi, scozzesi, svedesi, norvegesi, francesi, danesi, russi, italiani, spagnoli, greci, ungheresi. Tutti gli italiani sopravvissero e poterono raccontare la loro storia.

 

Cittadinanza per chi si arruola

All’epoca come oggi negli Stati Uniti l’esercito si rafforzava concedendo la cittadinanza americana a chi si arruolava. Evidente quindi che anche diversi immigrati italiani vi aderirono: dei sei italiani di Custer (nella foto il tenente colonnello con 4 suoi scout nel 1874) tre proseguirono la carriera militare anche dopo i 5 anni di ferma, gli altri si accontentarono invece di essere diventati cittadini americani.

Gli italiani di Custer provenivano da un Paese che risultava unito soltanto da 15 anni e quindi tutti erano nati sotto un governo diverso: Di Rudio nella Belluno dell’Impero austro ungarico, Devoto nella Genova del Regno Sabaudo come pure il torinese Vinatieri, mentre il salernitano Martini e il napoletano Lombardi venivano dal Regno borbonico delle due Sicilie e il romano Casella era suddito di papa Pio IX e dello Stato Vaticano.

 

Carlo Camillo Di Rudio

Il primo tenente Carlo Camillo Di Rudio era conte, nato a Belluno il 26 agosto 1832 da una famiglia di cospiratori anti austriaci. A 14 anni era stato cadetto all’Accademia militare austriaca di Milano e a 15 andò a combattere gli austriaci nelle forze rivoluzionarie mazziniane partecipando nel 1848 alla battaglia che nel 1949 fece nascere la Repubblica Romana; poi combatté contro gli austriaci. In seguito si imbarcò per America dove c’era ancora da combattere, ma un naufragio al largo della Spagna lo portò in Nord Africa dove combatté per le truppe coloniali francesi finendo esiliato in Inghilterra nel 1855. Lì poco più che ventenne sposò Eliza Booth, 14 anni di Nottingham, ricamatrice e analfabeta da cui ebbe subito il figlio Hercules. In Inghilterra il rivoluzionario e amico Felice Orsini (già incarcerato col padre e la sorella di Di Rudio) lo volle nell’attentato all’imperatore Napoleone III. Il 14 gennaio 1858 a Parigi assieme a Orsini, Giovanni Andrea Pieri e Antonio Gomez, Carlo lanciò la più forte delle cinque bombe artigianali dell’attentato (100 fra morti e feriti) contro la carrozza blindata dell’imperatore francese, che però si salvò. Fu sua moglie a salvarlo dalla ghigliottina tradendo un cospiratore inglese. (Di Rudio compare anche nella prima foto dell’articolo, tra le due sorelle in uniforme nello studio fotografico).

 

Dalla forca alla Cayenna

Finito all’ergastolo nella terribile casa penale della Caienna in Guyana francese, riuscì a fuggire tornando in Inghilterra dalla famiglia con cui partì definitivamente per gli Stati Uniti. Non riuscendo a stare lontano dalle armi, nel 1864 entrò nel 79° Fanteria di New York, poi come sottotenente fece parte del Fanteria di colore dei Volontari degli Stati Uniti, (nella foto) formato in gran parte da afro americani. Si arruolò nel 7° Cavalleggeri nel 1869 come sottotenente diventando tenente nel 1876. Ma nonostante la sua passione per la guerra e la sua simpatia, i suoi superiori americani ebbero spesso scarsa considerazione di lui considerandolo (scrisse Custer) il peggiore dei miei tenenti. E fu proprio l’antipatia di Custer a salvargli la vita: il comandante infatti nel febbraio 1876 lo trasferì dalla compagnia E alla A. Con i suoi 43 anni Di Rudio era il più vecchio ufficiale a cavallo di Little Bighorn (Custer era di 7 anni più giovane). Durante l’attacco all’estremità meridionale dell’accampamento di Toro Seduto, Carlo Di Rudio era a fianco del maggiore Reno e con i suoi uomini si staccò dalla colonna nascondendosi in un bosco.

Dopo la battaglia Di Rudio divenne comandante della compagnia E nel 1882 fu promosso capitano, rimanendo in servizio al 7° fino al 1896 quando andò in pensione col grado di maggiore.  Nel 1886 era a Chicago. Morì a Pasadena in California l’1 novembre 1910.

 

Giovanni Martini

Il trombettiere del 7° Cavalleggeri (compagnia H) era il salernitano Giovanni Crisostomo Martini, nato a Sala Consilina il 28 gennaio 1852. Fu l’unico sopravvissuto della colonna di Custer, perché fu lo stesso tenente colonnello a inviarlo nelle retrovie a chiedere rinforzi portando al tenente W.W. Cooke’s lo storico biglietto (in foto): Vieni. Grande accampamento. Fai presto. Porta munizioni al capitano Benteen. Ritornato sul campo di battaglia coi rinforzi, ormai era tutto finito.

Prima di Little Bighorn. Venuto via dall’Italia dove a 14 anni aveva prestato servizio militare come tamburino, si era arruolato sedicenne nel 7° Cavalleggeri il 15 settembre 1868 rimanendovi fino al 14 settembre 1873. Poi il 1° ottobre 1873 si riarruolò in un altro corpo, tornando ancora al 7°.

 

Scampato ai Sioux muore sotto il camion

Dopo Little Bighorn Giovanni sposò l’irlandese Julia Higgins, ebbe otto figli (a uno diede nome George in onore di Custer a cui doveva la vita) e rimase nel 7° Cavalleggeri per altri 11 anni; poi come sergente prese parte nel 1898 alla guerra contro gli spagnoli per l’occupazione di Cuba e si congedò nel 1904. Con la moglie gestì un negozio di dolciumi e in seguito la famiglia si trasferì a New York dove Giovanni lavorò come bigliettaio della metropolitana alla stazione della 103^ Strada. Separato dalla moglie nel 1906, andò a vivere da una figlia a Brooklyn e nel Natale 1922 (il 27 dicembre) a 70 anni morì a New York investito da un camion. Scampò alle frecce dei Sioux, ma non alle ruote di un fumoso camion.

 

Agostino Luigi Devoto

Libraio nato a Borgonovo Ligure il 27 febbraio 1852, Agostino Luigi Devoto a Little Bighorn faceva parte della compagnia B del capitano Thomas McDougall che aveva in carico i muli che trasportavano munizioni e viveri con cui rifornì le truppe del maggiore Reno che si era riparato sulla collina. I Sioux li combatterono fino al tramonto. Durante l’assedio Devoto con altri 33 volontari scese al fiume per prendere acqua e aiutò a seppellire il tenente Hodgson. Dopo due giorni di combattimenti i pellerossa levarono il campo (lungo 5 km) e le tre compagnie superstiti raggiunsero il luogo dove gli uomini del colonnello Custer erano stati annientati, seppellendo i morti e portando via i 50 feriti.

Prima di Little Bighorn. A 6 anni Agostino era migrato a New York assieme al padre Giuseppe e fin da piccolo fece lo strillone per strada.  A 21 anni era rilegatore di libri a Manhattan e a 22, il 4 ottobre 1873 a St. Louis nel Missouri si arruolò nel 7° Cavalleggeri ritrovandosi tre anni dopo nella battaglia di Little Bighorn.

Dopo quell’evento nel 1878 a Fort Yates nel Dakota si congedò dall’esercito dedicandosi al commercio alimentare a Tacoma. Il 29 novembre 1885 sposò l’italiana Teresa Bonetti ed ebbe 4 figli: Amelia, Augustus jr., Rosa, Leon. Morì a Tacoma nello Stato di Washington il 3 novembre 1923.

 

Giovanni Casella

Giovanni Casella nato a Roma nel 1848. In Italia era militare e quando emigrò negli Usa, il 13 maggio 1872 a 24 anni a Lousville (Kentucky) si arruolò nel 7° Cavalleggeri – compagnia E. Poi dopo la prima ferma di 5 anni si arruolò nuovamente nel 7° nella compagnia B delle salmerie del capitano Thomas McDougall.

Scampato alla morte, nel 1880 era militare a Fort Meade nella Lawrence County del Dakota e al termine della ferma si congedò come caporale a Fort Abraham Lincoln. Nell’ottobre 1886 a Manhattan a 38 anni sposò la quindicenne Emma Murphy.

 

Francesco Lombardi

Nato a Napoli nel 1848 Francesco Lombardi era componente della banda musicale e il giorno della battaglia si trovava malato a Fort Abraham Lincoln.

A fine ferma lasciò l’esercito nel settembre 1876 e morì a San Diego in California il 21 giugno 1917.

 

Felice V. Vinatieri

Nato a Torino nel 1834 Felice Vinatieri era il direttore della banda del reggimento (foto sopra) composta (come di regola) da 16 elementi. La banda, oltre al suo compito di sovrintendere ai compiti militari e alle esercitazioni, suonava anche per allietare gli ufficiali e le loro mogli la sera e in qualche party.

Al momento della battaglia Felice si trovava sul battello a vapore Far West in riva al fiume Powder River con la banda del reggimento. In seguito Vinatieri dopo i 5 anni di ferma che finirono 6 mesi dopo la battaglia di Little Big Horn, nel dicembre 1876 si congedò. Diresse un’orchestra e viaggiò con vari spettacoli, tra cui i circhi dei Fratelli Ringling e il Barnun & Bailey. In Italia fu capo banda della Guardia della Regina degli Spagnis. Visse con moglie e 5 figli a Yankton nel Dakota dove morì il 15 dicembre 1891.

 

Via dalle vostre terre ricche di oro!

Il tenente colonnello George Armstrong Custer comandante del 7° Cavalleggeri verso mezzogiorno di domenica 25 giugno 1876 decise che i suoi 600 uomini avrebbero attaccato l’accampamento di Lakota (Sioux), Cheyenne e Arapaho, nel terreno di caccia che i nativi americani avevano nelle cosiddette Blaks Hills (Colline nere). Nella foto sopra Cheyenne prigionieri del tenente colonnello Custer 8 anni prima della sua ultima battaglia). La missione rientrava nella contesa di quelle aree riconosciute come Grande Riserva Sioux, in cui però i bianchi nel 1874 avevano scoperto l’oro e che per questo volevano sottrarre a chi lì da sempre viveva. Se inizialmente l’esercito allontanò i primi cercatori d’oro, poi il governo di Washington propose ai capi pellerossa Nuvola Rossa e Coda Chiazzata di acquistare il territorio con 121 milioni di dollari (valore attuale) o con un vitalizio. L’accordo non andò a buon fine perché i nativi ritennero irrisorio l’importo e perché alcune tribù capitanate da Toro Seduto non intendevano cedere altre terre. Così nel 1875 i cercatori d’oro abusivi in quell’area salirono a 15.000 unità e nel gennaio del 1876 il governo ordinò a tutti i nativi di ritirarsi, in caso contrario sarebbero stati trattati come ostili. Ma l’ordine non venne accolto e a molte tribù nemmeno arrivò. Di conseguenza all’inizio della primavera due generali e un colonnello con le loro forze cominciarono a convergere da tre parti sulle montagne di Bighorn, a sud del fiume Yellowstone. I visi pallidi pensavano di dover fronteggiare un numero di nativi inferiore alle mille unità: tanti potevano essere gli irriducibili di poche tribù ostili agli ordini impartiti dal governo occupante, ma il numero degli irriducibili era invece di alcune migliaia.

 

Soldati in abiti civili

Le truppe americane che si scontrarono a Little Bighorn aveva un abbigliamento composito da irregolari: diversi ufficiali indossavano camicie di varia foggia, pelli di daino, cappelli di paglia e i soldati camicie blu di vari toni, pantaloni blu ma anche bianchi e cappelli civili. In marcia in cerca dei Lakota di Toro Seduto, dei Cheyenne e di altre tribù di cui non si conosceva la posizione, il generale Alfred H. Terry inviò in avanscoperta gli uomini del tenente colonnello Custer. Dopo 105 miglia coperte in tre giorni soldati e cavalli erano stanchissimi, anche perché erano in movimento da sei settimane. (Nella foto il si sposta nelle Black Hills).

 

La battaglia di Little Bighorn

Il il 17 giugno Cheyenne e Sioux attaccarono numerosi la formazione del generale George Crook in avvicinamento, obbligandole ad arretrare. Arrivati al fiume Little Bighorn, Custer avanzava su una riva e il maggiore Marcus Reno sull’altra. Il comandante ordinò a Reno di attaccare quello che pensava un piccolo accampamento promettendogli che l’intero comando l’avrebbe seguito; invece Custer salì in collina convinto di poter accerchiare i nativi impedendone la fuga come aveva fatto a Washita. Avvistato l’accampamento, Reno attaccò, subendo però un inatteso contrattacco, anche perché non si trattava (come ritenevano i bianchi) di un accampamento di poco conto. Al che il maggiore fece scendere gli uomini da cavallo ponendosi in posizione difensiva (con un uomo ogni 4 che doveva tener fermi i cavalli) protetti da un boschetto. Il contrattacco si rivelò così forte che i soldati fuggirono dall’altra parte del fiume salendo sul colle, ma riuscirono a scampare solo metà dei soldati. Lì rimasero assediati per una giornata. Le munizioni arrivate col capitano Benteen furono piazzate in collina a difesa di Reno. Nel frattempo Custer stava combattendo, ma quando si accorse che l’accampamento era enormemente più grande del previsto risalì in collina; a quel punto però era inseguito da centinaia di nativi. Nel fuggi fuggi di soldati, Cavallo Pazzo (Crazy Horse, nella foto sopra il titolo) attaccò le ultime forze di Custer, chiuse a quadrato, annientandole.

 

I tre italiani in battaglia

La mattina del 25 giugno i tre italiani impegnati nell’avvicinamento all’accampamento indiano ebbero tre compiti diversi. Martini fu assegnato come trombettiere personale di Custer accompagnando il colonnello ovunque. Custer ordinò al maggiore Marcus Albert Reno (foto sopra il titolo) di portare le compagnie A, G e M giù dalla valle lungo il fiume Little Bighorn attaccando l’estremo sud dell’accampamento; lui invece avrebbe proseguito con le compagnie C, E, F, I, L verso la fine dell’accampamento (ritenuta erroneamente vicina). Il lento convoglio con munizioni e viveri scortata dalla compagnia B dove c’era Devoto, era ancora lontana.

Alle 15,10 il battaglione del maggiore Reno attaccò l’estremo sud dell’accampamento, ma fu subito costretto a ritirarsi per il gran numero di pellerossa balzati al contrattacco. Il capitano Benteen seguiva Custer a distanza di quattro miglia.

 

L’Sos nelle mani dell’italiano

Fu solo durante l’attacco di Reno che Custer, da un’altura, poté vedere l’immensità dell’accampamento. Dieci minuti dopo decise di inviare il suo trombettista Giovanni Martini da Benteen con un messaggio scritto ordinandogli di sbrigarsi: scritto perché Martini che viveva da tre anni in America non parlava ancora bene inglese. Martini fu l’ultimo soldato a vedere Custer e i suoi vivi. Nonostante il suo cavallo fosse stato raggiunto da una freccia, alle 15,35 il trombettiere italiano raggiunse Benteen che gli ordinò di aggregarsi alla compagnia H diretta alla collina dove trovarono i resti del battaglione di Reno che si era ritirato perdendo il 40% della compagnia. Visto che scendere ad aiutare Custer sarebbe stato un suicidio, le truppe si attestarono in alto e alle 17,15 arrivò il convoglio con la compagnia B. In quella circostanza Di Rudio e altri 18 uomini rimasero indietro nel bosco circondati da nativi americani. Lasciando andare i cavalli si salvarono. Andato in avanscoperta con sei soldati, Di Rudio vide Custer in cima alla collina, poi tornarono a nascondersi nel bosco da dove videro le donne pellerossa mutilare i soldati morti e moribondi. Intanto Reno stava combattendo contro pochi nativi perché gran parte si erano scagliati contro Custer che aveva attaccato a nord. Rimasti nascosti di notte, l’indomani Di Rudio e i suoi tre compagni costeggiarono il fiume per allontanarsi. (Nella foto sopra il titolo il biglietto con la richiesta di aiuto scritta a matita che Custer affidò al trombettiere italiano)

 

Arrivano i nostri! Ma erano i nativi

A un tratto, vedendo avvicinarsi un gruppo di cavalieri che indossavano giubbe blu, il tenente italiano iniziò a gridare per farsi notare, ma Thomas F. O’Neil della compagnia G lo trattenne perché si era accorto che erano dei Lakota che indossavano le camicie dei bianchi uccisi. Così mentre la battaglia ancora infuriava sulle rive, quei pochi uomini rimasero nascosti e a 150 metri di distanza assistettero per ore a una processione di migliaia di uomini donne bambini e cavalli che si allontanavano spostando altrove le loro tende. Solo alle 3 di notte Di Rudio e O’ Neil lasciarono i boschi mettendosi in salvo. (nella foto sopra un accampamento sul Little Bighorn e, sotto, il cavallo Comanche, unico sopravvissuto alla battaglia. Apparteneva al capitalo Myles E. Keough).

Quel 25 giugno Augusto Devoto con la sua compagnia B si trovava molto lontana e quando alle ore 16 con munizioni e viveri raggiunse i sopravvissuti del maggiore Reno, sentì a due miglia di distanza gli spari. Un luogotenente di Reno arrivò a prendere i primi muli con le munizioni, il resto del convoglio impiegò 45 minuti a salire la collina dove i soldati erano assediati. Alle 17, visto che i nativi avevano ormai circondato Custer, il tentativo di portargli soccorso fu giudicano vano. Accampati in collina, i bianchi resistettero 24 ore. Reno e Benteen rimasero a lungo sotto un pressante attacco, e nessuno sapeva che alle 17,30 Custer e 5 compagnie erano stati completamente annientati. L’assedio durò fino al tramonto. L’indomani 34 volontari tra cui Devoto, scesero al fiume a prendere l’acqua sotto il fuoco dei cecchini: Devoto riempì un bollitore da cucina. Alle 15 i nativi si ritirarono. Di notte Di Rudio e O’Neil si unirono al gruppo. I feriti furono portati al battello Far West ormeggiato sulle rive del Little Bighorn.

 

Cadaveri spogliati e mutilati

Tutti i 268 soldati uccisi a Little Bighorn, tra cui i fratelli di Custer, Thomas Custer di 31 anni e Boston Custer di 28, furono in seguito denudati dai pellerossa, scalpati e mutilati in vario modo. Questa sorte inspiegabilmente non toccò al comandante George Armstrong Custer e a un civile al seguito del comandante, Marcus Henry Kellog, i cui cadaveri vennero soltanto lasciati nudi sul terreno. Il comandante Custer fu colpito mortalmente alla tempia sinistra e al cuore. Il corpo di Thomas Ward Custer venne riconosciuto soltanto grazie ai tatuaggi della dea della libertà e della bandiera americana sul braccio.

I pellerossa uccisi furono 163. Alcuni nativi, testimoni oculari della battaglia, intervistati in seguito raccontarono che erano stati i vecchi delle loro tribù a compiere quelle brutalità sui morti; e dissero di aver visto diversi soldati suicidarsi sparandosi alla testa piuttosto che venir fatti prigionieri. (Nella foto sopra il titolo, espressione della rabbia sfogata a colpi d’ascia e frecce dai pellerossa sui cadaveri dei soldati che avevano attaccato il loro accampamento).

 

La prima vittima dell’Associated Press

Oltre a quello del comandante Custer, l’altro corpo risparmiato dai nativi fu quello del reporter di guerra Marcus Henry Kellog, canadese di 45 anni. Il giornalista, lasciate a una parente le due figlie dopo che sua moglie era morta, in abiti civili seguiva la missione per conto della Associated Press e fu il primo reporter della stessa agenzia a morire in battaglia. Inizialmente a mettersi al seguito dell’esercito per documentare la missione delle Black Hills, doveva essere Clement A. Lousberry editore del The Bismark Tribune,  che però si ammalò e quindi chiese al suo aiutante di sostituirlo. Il corpo del giornalista che faceva parte della compagnia E, fu trovato in un burrone, senza scalpo e con un orecchio tagliato. Fu identificato grazie ai suoi stivali.

Quattro giorni prima di morire, Kellog aveva inviato il suo ultimo reportage in cui spiegava che il generale Terry aveva predisposto un campo rifornimenti sulle rive del fiume Powder utilizzando il battello a vapore Far West come sede del comando e come deposito mobile capace di rifornire truppe, cavalli e muli con viveri e foraggi per 30 giorni. Mentre il piroscafo avrebbe proseguito per 40 miglia fino alla foce del fiume Tongue, Custer e i cavalleggeri sarebbero andati via terra. Seguendo il 7° Cavalleggeri, Kellog riportò che gli unici spari uditi erano stati quelli che Custer esplose contro un’antilope colpita a quasi 400 metri di distanza. Poi più nulla.

 

 

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