La Banda Carità
Una sventagliata di mitra lo uccide nella camera da letto di una casa di contadini in provincia di Bolzano dove si era messo al sicuro assieme a una donna e un tesoro in lire e preziosi. Le sue due figlie, sistemate in un’abitazione vicina, vengono prese. E’ la notte del 18 maggio 1945 e in una casa a Castelrotto vicino all’Alpe di Siusi (BZ) fa irruzione la polizia militare americana che è sulle sue tracce. Lui è a letto con l’amante Emilia Chiani, prende la pistola e spara uccidendo un soldato, quindi viene freddato e nella sparatoria la donna rimane ferita. Venti giorni esatti dopo l’uccisione del suo capo, Benito Mussolini, bloccato dai partigiani con l’amante mentre cercava di fuggire in Svizzera, muore in circostanze simili il più feroce degli aguzzini fascisti della Repubblica Sociale Italiana, Mario Carità (nella foto sopra al centro) fondatore della cosiddetta Banda Carità rimasta tristemente celebre in Toscana e Veneto per le feroci torture che infliggeva agli antifascisti.
Il tesoro che portava con sé lo aveva affidato alla figlia più giovane della proprietaria di casa, Frida Planötscher, che ricevette una busta in cuoio con 1.400.000 lire, 200 monete d’argento di vario conio, due orologi d’oro, quattro anelli d’oro di cui uno con brillante di raro valore, tutto frutto di furti, da nascondere in una mangiatoia della stalla del maso Sielber. A guerra finita Frida Planötscher (denunciata per appropriazione indebita aggravata), divise con quattro amici quel bottino tenendone la parte più rilevante; i carabinieri vennero a saperlo e così saltò fuori anche una seconda borsa contenente banconote da mille e da cinquecento lire che Carità aveva nascosto nel sottotetto del maso, e che la pioggia danneggiò.
Mario Carità di fu Gesù
Con un nome così, figlio addirittura di Gesù, nessuno avrebbe pensato che quell’orfanello a 40 anni sarebbe diventato assassino e selvaggio aguzzino torturatore. Nato a Milano il 3 maggio 1904 (il padre non lo volle riconoscere), a 15 anni Mario Carità divenne squadrista tra i fascisti della prima ora prendendo poi parte a Lodi e Milano alle spedizioni punitive tra il 1920 e il 1922, guidate dal giornalista Luigi Freddi. Sparò una prima volta sulla folla durante un comizio elettorale a Milano nel 1919 e finì in prigione; poi fu coinvolto in un omicidio.
Come rappresentante di apparecchi radio Philips si trasferì con la moglie a Firenze lavorando come elettricista in un negozio di radio che lo licenziò quando venne fuori che li aveva derubati. Così aprì un laboratorio di riparazioni nella centrale via Panzani: l’attività rendeva molto, soprattutto perché nel retrobottega aveva istituito una bisca clandestina con annessa stanza per appuntamenti. Ma non temeva denunce, dato che per hobby faceva lo squadrista e la spia della polizia di regime. Con lo scoppio della guerra, trovò il modo di rendersi ancora più utile alla polizia segnalando chi gli portava la radio ad aggiustare e gli raccontava di ascoltare la vietatissima trasmissione Radio Londra, con cui dal 1938 la BBC dava informazioni in italiano sugli esiti della Resistenza (più tardi anche indicazioni in codice ai partigiani). Già da prima della caduta del fascismo (25 luglio 1943) Mario Carità era nel libro paga della polizia segreta OVRA (Opera Volontaria per la Repressione dell’Antifascismo) che contava su molti informatori volontari, come lui. Dopo l’8 settembre del ’43 e dopo la morte (tre giorni dopo) di sua moglie, con la nascita della Repubblica Sociale Italiana ottenne dai tedeschi il comando di un reparto di SS italiane, le cosiddette Italienische Waffenverbände der SS affiliate alle Waffen SS col compito di addestrare quanti avevano risposto all’ordine di affiancarsi ai tedeschi. Dopo il 17 settembre 1943 a Firenze all’interno della 92^ legione delle camicie nere (poi confluita nella Guardia nazionale repubblicana) venne istituito l’Ufficio politico investigativo con a capo proprio lui: prese il nome di Reparto Servizi Speciali, in gergo popolare la Banda Carità, alle dirette dipendenze dalle SS in Italia e in stretto collegamento con la Repubblica Sociale Italiana. Carità, col grado di seniore (pari a quello di un maggiore dell’esercito) aveva ai suoi ordini una sessantina di uomini divisi in tre squadre: la Manente che si autodefiniva la squadraccia degli assassini, la Perotto detta la squadra della labbrata e la squadra dei quattro santi.
A Firenze la prima sede
A Firenze la prima sede della formazione era in una villetta al 22 di via Benedetto Varchi requisita a una famiglia ebrea; la seconda fu villa Malatesta in via Ugo Foscolo e infine, da gennaio 1944, al 67 dell’attuale Largo Fanciullacci in quella che poi gli stessi sgherri chiamavano Villa Triste (in foto) dove la banda, che divenne specialista in infiltrazioni, attentati, assassinii e soprattutto torture, teneva sequestrati gli antifascisti e li torturava. Ma la banda aveva anche libero accesso a qualche locale nel Parterre di piazza Ciano e ad alcune camere dell’hotel Excelsior e del Savoia. Mario Carità con le due figlie di 19 e 16 anni abitava invece una bella casa in via Giusti, sempre sequestrata a ricchi ebrei. Per gli spostamenti il gruppo che si muoveva sempre in borghese, aveva a disposizione diverse auto e anche un’ambulanza di copertura. E quando volevano fare gli spavaldi, camminando per il centro cantavano questo ritornello: Eccoci qua, siam tutti qua Siam del reparto di Carità Se qualcuno ci toccherà Botte, botte in quantità.
Gli specialisti della banda
Della banda facevano parte avanzi di galera riabilitati dalla Repubblica Sociale, a cui veniva chiesto di esercitare la violenza di cui erano capaci; con loro anche Emilia Chiani, l’amante di Carità. Quando si posizionò a Villa Triste la Banda Carità contava su circa 200 individui.A fianco del capo c’era Pietro Koch che poi si spostò in Italia settentrionale e a Roma compiendo analoghe efferatezze: a Villa Triste spesso interrogavano l’arrestato steso su una specie di letto da fachiro, gli facevano bere petrolio, gli davano scariche elettrice sui genitali, gli riempivano la bocca di sale. Tutte torture eseguite da più persone che si ubriacavano di cognac o usavano cocaina e che si davano di continuo il cambio. Quando le torture non bastavano, si procedeva alla fucilazione, come per la partigiana ebrea bolognese Anna Maria Enriques Agnoletti, torturata e obbligata a restare in piedi per 7 giorni senza sedersi e senza dormire prima di venir uccisa a fucilate.
Il vice parroco suona il piano
per coprire le urla
Accanto ai torturatori, il conforto della “fede” era portato da tre religiosi: l’ex prete Giovanni Castaldelli che era anche uno dei più feroci aguzzini, padre Epaminonda Troya (qui fotografato negli anni ’80) e il cappellano delle SS don Gregorio Boccolini.
Alfredo Epaminonda Troya (detto don Ildefonso) nel 1944 era un monaco di 29 anni (nato ad Arcinazzo Romano). In veste di vice parroco del convento vallombrosiano di Santa Trinita a Firenze, aveva inizialmente dato soccorso ai prigionieri alleati (servizio organizzato dal parrucchiere Ferdinando Pretini), ospitando nel convento una missione badogliana e soldati del disciolto Regio Esercito. Poi la Banda della Carità lo arrestò. La versione ufficiale dice che subì percosse e cedette al ricatto (nella sua stanza furono trovate lettere d’amore e pubblicazioni clandestine); altri sostengono che fosse stato lui, in quanto spia fascista, a far arrestare Pretini. Di fatto il monaco passò al servizio attivo degli aguzzini. Mentre avevano luogo le torture, le urla dei prigionieri venivano coperte dal pianoforte suonato da questo monaco che intonava canzoni napoletane (a Firenze, e l’Incompiuta di Schubert a Roma quando passò al servizio di un’altra banda di criminali di Stato). Troya, che all’epoca girava con documenti falsi intestati a Elio Desi, aveva sposato le teorie scismatiche del sacerdote fascista don Tullio Calcagno. Calcagno (prete scomunicato il 25 marzo 1945) si definiva crociato italiano e alla radio nel novembre ’44 disse tra l’altro: Per noi crociati italici, re d’Italia sarà Cristo e solo Cristo, che non tradisce. A lui e per lui all’uomo che con migliore diritto di ogni altro appare da lui mandato a guidarci, Benito Mussolini, noi ubbidiremo fino alla morte.
Quando Troya, nel frattempo sospeso a divinis dalla Chiesa, lasciò la Banda Carità, seguì quella di Pietro Kock a Roma e a Milano prendendo parte alle torture e forse all’assalto dei tedeschi e della banda Koch alla Basilica di San Paolo a Roma.
Il partigiano rifugiato dal pittore fascista Rosai
Da gennaio all’agosto 1944 negli scantinati del palazzo di via Bolognese 67 a Firenze, (Villa Triste) la Banda Carità torturava gli antifascisti catturati, dividendo i primi due piani con il Servizio Sicurezza nazista del capitano von Alberti.
Da una di queste sessioni di sevizie non uscì più un ragazzo di 24 anni, Bruno Fanciullacci (a cui è dedicata oggi la piazza antistante). Fanciullacci era stato arrestato il 26 aprile dalla Banda Carità, sospettato di aver ferito lo squadrista Bruno Landi. Dall’interrogatorio a Villa Triste uscì con diverse ferite da pugnale (a una mano, alle natiche, ai testicoli), ma gli strapparono anche le unghie di mani e piedi con le pinze e gli bruciarono gli occhi, tanto che dovette essere ricoverato in ospedale piantonato dai fascisti. Dall’ospedale però un gruppo di suoi compagni gappisti l’8 maggio lo fece evadere nascondendolo in casa del pittore fascista Ottone Rosai (nela foto in divisa) dove scrisse un diario. Una volta guarito, Fanciullacci prese parte alla liberazione di 17 detenute politiche dal carcere di Firenze, ma venne ripreso il 14 luglio in seguito a una delazione. Per evitare altre torture il giovane con le mani legate dietro la schiena si scaraventò giù da una finestra da un’altezza di 20 metri e morì dopo tre giorni per il trauma cranico e per un colpo di pistola a un fianco. Era lo stesso partigiano che il 15 aprile 1944 aveva ucciso l’ex ministro e allora presidente dell’Accademia d’Italia Giovanni Gentile, ma i suoi aguzzini non lo sapevano.
La Banda Carità da Firenze a Padova
Avanzando gli alleati nel centro Italia, la Banda Carità lasciò Firenze, non prima di aver rapinato 55 milioni alla Banca d’Italia e aver saccheggiato la sinagoga fiorentina. Passò nel Veneto a Bergantino (RO), poi nel novembre 1944 Federico Menna che, da capo della Provincia di Rovigo era stato mandato a gestire la Provincia di Padova, se la portò dietro per sradicare dalla città gli antifascisti. Per questo la formazione requisì nel centro di Padova palazzo Giusti in via San Francesco 55 alla famiglia Giusti del Giardino, e lì rimase fino all’aprile del ’45, quando, dopo un accordo col Comitato di Liberazione Nazionale, il 27 aprile gli aguzzini fuggirono verso il Brennero lasciando in vita i prigionieri. (Nella foto la lapide commemorativa fuori da quel luogo di dolore).
Nell’autunno del 1944 la Banda Carità portò a Palazzo Giusti l’intero CLN del Veneto, in tutto oltre 70 partigiani che, non essendoci più spazio disponibile, vennero collocati in 5 celle ricavate dalle scuderie. In ognuna, dentro uno spazio di 1 metro e 80 per 1 e 10, dormivano 3 prigionieri su brande sovrapposte, senza nulla per coprirsi. Ma quello era il meno: furono sottoposti alle torture più spietate della storia moderna italiana.
Tra i primi arrestati il prof. Antonio Zamboni, l’avvocato Sebastiano Giacomelli. Tra i delitti padovani della banda, ci sono quelli di Otello Pighin, Franco Sabatucci, Corrado Lubian. Secondo le testimonianze, nella Banda Carità agiva anche un’anziana chiamata la mamma perché era la effettivamente la madre di due scagnozzi della formazione nonché la moglie di un terzo: quella donna si incaricava di chiedere alle famiglie degli arrestati forti somme e forniva loro informazioni spesso false.
Il metodo Carità
Forte consumatore di cocaina assieme ad altri del suo gruppo, Mario Carità soleva entrare all’improvviso durante l’interrogatorio di un nuovo prigioniero e, fingendosi buono, si preoccupava delle sue condizioni: E’ pallido, diceva, e quello era il segnale per una nuova scarica di pugni e calci in faccia.
Per estorcere confessioni e carpire informazioni usavano molti modi: dalle torture psicologiche (impedire il sonno per disorientarli e altro) ai pestaggi, ma il nucleo centrale del trattamento era quando i carnefici inveivano con scariche elettriche ai genitali o strappando le unghie con le pinze. Chi sopravviveva senza confessare veniva fucilato o deportato nei lager tedeschi. Nella sede padovana, come in quella fiorentina, il maggiore Carità aveva tra i suoi più feroci collaboratori il tenente ed ex sacerdote Giovanni Castaldelli (rodigino di Bergantino).
L’Italia liberata perdona
La Corte d’assise straordinaria di Padova, convocata il 25 settembre 1945, giudicò 19 componenti la banda, tra cui le figlie di Carità Elisa di 17 anni e Franca di 20. Dal processo uscirono 4 condanne a morte per numerosi delitti e in particolare per l’omicidio del comandante della brigata Garibaldina Franco Sabatucci (ammazzato su ordine del maggiore Carità il 19 dicembre 1944 in via IV novembre vicino a palazzo Esedra). Il brigadiere Antonio Coradeschi (27 anni) ritenuto uno dei carnefici più terribili fu l’unico ad essere giustiziato, il 26 aprile 1946 nel poligono di tiro padovano di via Goito; gli altri principali imputati Mario Chiarotto (27 anni) e Ferdinando Falugnani (30 anni), ottennero nel 1951 la libertà condizionale e nel 1964 l’estinzione dei reati commessi. La figlia Franca subì la condanna a 16 anni, mentre Elisa fu assolta. Nel processo d’appello le 3 condanne a morte rimanenti furono commutate e alla fine, nel 1955, erano già tutti liberi.
Un altro processo si celebrò a Lucca il 23 aprile 1951 per 204 elementi della Banda Carità (9 latitanti): in questo caso nessuna condanna a morte, ma 20 ergastoli convertiti poi in 30 anni; 28 furono assolti o amnistiati. A tutti furono confiscati i beni.
Dopo la guerra padre Epaminonda Troya fuggì in Argentina, tornando in Italia per farsi processare. Condannato a 28 anni di carcere, ne scontò 7 uscendo con un’amnistia nel 1953; morì da uomo libero nel 1984.
Dalle torture al cinema e alla tv
Stando al libro La liberazione di Firenze di Giovanni Frullini (che fa i nomi di molti componenti della Banda Carità) ai pestaggi partecipava anche il ventitreenne fiorentino Arrigo Masi il quale, uscito indenne dal processo di Lucca, come figlio d’arte si diede allo spettacolo girando piazze, circoli, quartieri e perfino case del popolo come applauditissimo cabarettista dialettale assieme a Tina Vinci. Si faceva chiamare Ghigo Masino e negli anni ’70 approdò alle tv private e gli spot tv. Tele Libera Firenze lo ebbe come protagonista di una sit com locale (Il priore e la perpetua) che fu sospesa quando uscì la notizia di chi fosse quel “prete”, e naturalmente lo cacciarono dopo che alcuni ex partigiani avevano riconosciuto in lui uno dei picchiatori della Banda Carità. Nel ’70 presentò in una radio fiorentina il programma di dilettanti dal titolo vagamente evocativo di La mattanza. Dopo quell’esperienza recitò in 10 film del genere erotico casereccio che andavano di moda, fino all’ultimo del 1983 (Io zombo tu zombi lei zomba), due anni prima di morire. Nel video seguente lo si vede nel film Atti impuri all’italiana del 1976 nel ruolo di don Firmino assieme a Stella Carnacina.
Le azioni di Mario Carità furono talmente efferate che il 14 dicembre 1943 il “maggiore” dovette perfino scrivere una lettera di giustificazioni a Mussolini, a cui l’ambasciatore tedesco aveva chiesto di allontanare Carità da Firenze, perché la sua banda svaligiava le abitazioni e lasciava scritto sui muri Requisito dalle SS.
La completa vicenda della Banda Carità è stata raccontata nella tesi di laurea di Riccardo Caporale, che tra gli altri ha intervistato anche la figlia più giovane di Carità, Elisa.
TESTIMONIANZE DEI PADOVANI TORTURATI
Il ricordo di Rino Gruppioni
Erminia Gecchele, partigiana padovana rimasta per sempre invalida dopo un interrogatorio a Palazzo Giusti, raccontò che alle sevizie era presente Franca Carità di 19 anni (figlia del maggiore Mario Carità), che la prendeva in giro standosene comodamente in poltrona a fumare. Il dirigente triveneto dei GAP partigiani Rino Gruppioni, rimasto 5 mesi nelle mani della Banda Carità a Padova, racconta che ogni giorno più volte (soprattutto di notte) lo torturavano. Fecero ogni tipo di tortura a me e a Emma Guerra arrestata con me. Usarono la corrente elettrica ai polsi, alle orecchie, agli organi genitali; ci percuotevano per ore con nervi di bue, tondini di ferro, ci legavano supini perché il corpo e la pelle fossero tese e con bastoncini di ferro tamburellavano la schiena facendo un male atroce e provocando il rigonfiamento della pelle e le reazioni del corpo stesso, tanto che il sangue usciva dai pori, oltre che dalle ferite; spegnevano le cicche nelle ferite e nella pelle e a questa funzione era adibita anche la Franca Carità, figlia del capo della banda dei criminali fascisti: arrivava persino a spegnerci le cicche di «Serraglio» negli organi genitali, con orribile sadismo. Insieme a noi, a Palazzo Giusti, erano in istato d’arresto, anche se non erano martirizzati come noi, altri importanti esponenti del Comando regionale unico delle Tre Venezie: ricordo il prof. Meneghetti, il prof. Ponti, l’avv. Giacomelli (quest’ultimo, esponente liberale, lo ricordo perché, avendo ogni giorno dall’esterno il pranzo completo, tratteneva per sé solo la minestra e il resto lo passava a me, viste le condizioni gravi in cui mi trovavo), il prof. Cestari, il prof. Zamboni, il dottor Avossa ed altri. Ogni giorno la situazione peggiorava. Gombia era calato metà del suo peso; il rancio era formato da acqua di pasta e qualche rimasuglio del pane della banda.
Il ricordo di Adolfo Zamboni
Appena entrato dal comandante vidi l’apparato che dava i brividi. Tutti gli ufficiali erano attorno al tavolo di Carità; ai lati dello stanzone erano disposti gli scherani; su un tavolo faceva mostra la triste “macchinetta”… Mentre uno mi applicava i fili elettrici, gli altri mi schernivano dicendo: “Vedi che bella testa tonda da parroco”; e giù pugni. Entrò anche il più sanguinario, lo Squilloni, che senza pronunciare sillaba mi assestò due sonori schiaffi. Io non potendo parlare perché sussultavo sotto le scosse elettriche. In quel momento, e non potrò perdonare questo supremo atto di vigliaccheria, l’ex prete Gastaldelli disse ironicamente ai degni compagni: “Ora gli facciamo dire anche il nome del tipografo.” E mi fece applicare i fili elettrici agli orecchi. Dio solo può perdonare tale raffinata forma di martirio a chi l’ha fatta provare ai poveri sofferenti di Palazzo Giusti. Caddi dalla sedia lungo disteso e cominciai a urlare; man mano che la corrente aumentava di intensità avevo l’impressione che al posto della testa avessi una fonte luminosa sprizzante scintille. E come gli urli divennero belluini, Carità ordinò che mi si tappasse la bocca. Il che fu fatto. Ma l’ex prete non fu appagato; il nome del tipografo non fu pronunciato sotto il martirio, come non era stato pronunciato la notte tra il 30 ed il 31 dicembre, dopo sei ore, dico sei, di interrogatorio. Per molti giorni portai i segni delle percosse con un gran livido sotto l’occhio destro; tutt’ora la mano sinistra ha dei tendini accavallati, effetto della applicazione elettrica”.
Il racconto di Emma Guerra
La sera del 27 novembre 1944 rientrando in bicicletta a Padova da una missione partigiana a Verona, la mia casa era già stata occupata dai fascisti della Banda Carità. Mi portarono al comando delle SS tedesche dove mi interrogò lo stesso Carità: voleva sapere i nomi dei partigiani e dove si trovavano. Io dicevo no, ma sapevo che in casa avevano trovato abbondante materiale partigiano e anche una bomba. Su di me, inoltre avevano trovato una lettera di un amico colonnello veronese da consegnare al comando e avevo in tasca anche alcuni documenti compromettenti. La mia posizione quindi era evidentemente difficile, ma io negavo e basta. Allora il capitano fascista Antonio Coradeschi (l’autista di Mario Carità, ndr) mi diede venti frustate ed io ben presto perdetti la sottoveste che era l’unico indumento che avevo addosso. Lo stesso Carità mi diede dieci frustate dicendo che le sue valevano il doppio di quelle degli altri. Poi, via via, tutti gli altri mi frustarono. Così durò per circa dieci ore, durante le quali, in brevi intervalli, mi facevano assistere alla tortura degli altri compagni.
Vidi che picchiavano con spranghe di ferro le piante dei piedi di Rino Gruppioni e che gli mettevano mozziconi di sigarette nelle piaghe dopo averlo frustato. Attilio Gombia lo torturarono bestialmente, persino con scossa elettrica alla gola e agli organi genitali. Visto che continuavo a negare anche dopo ore di frustate, mi attaccarono i fili elettrici ai pollici delle mani e nelle orecchie e cominciarono a dare le scariche. Si sentiva un dolore immenso. Mi capitava però, che, dopo la tortura, mi sentivo ancora più ferma e quando staccavano per chiedere se mi ero decisa a parlare io rispondevo sempre di no e allora continuavano. Così durò fino a quando venne giorno.
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gentile Roberto, ho letto con interesse il suo articolo per un lavoro sulla Resistenza, e mi chiedevo se può indicarmi le fonti bibliografiche su Mario Carità. può contattarmi in privato? grazie
interessantissimo. davvero notevole.
Arrigo R.
Grazie Arrigo.
a beneficio di pingback pubblico anche qui un mio commento.
“gli ebrei piacevano a tutti quando si facevano ammazzare come pecore al macello, appena hanno provato a difendersi hanno scatenato sentimenti antiebraici. La storia è vecchia e la si potrebbe applicare agli Armeni, ai cristiani, ai pellerossa e a tutti gli altri popoli o razze che, stanchi di farsi deportare e massacrare hanno pensato bene, per la sopravvivenza stessa del proprio popolo o della propria razza di ribellarsi e difendersi e la difesa contro un attacco armato è e sarà sempre l’eliminazione dell’agressore che, agli occhi degli stolti, diventa automaticamente vittima”
1944-2014: a settanta anni di distanza, un ricordo di
SARA CHE NON VOLEVA MORIRE…
(Gianni Sartori)
Ci sono storie che insegui inconsapevolmente per anni, o forse sono quelle storie che ti inseguono…
Una prima volta ne avevo sentito parlare circa trenta anni fa. Un giro in bici, una sosta nella piazzetta di un paese mai visto prima, un casuale incontro con un’anziana che aveva assistito ai fatti di persona. Mi parlò di un evento all’epoca poco conosciuto (“obliterato”), su cui poco pietosamente veniva steso un velo di silenzio: la deportazione in una antica villa padronale di Vò Vecchio (Villa Contarini-Venier) di un gruppo di ebrei rastrellati nel Ghetto di Padova (dicembre 1943). E mi accennò ad un episodio ancora più inquietante, il tentativo di una bambina (forse spinta dalla madre) di nascondersi in una barchessa per evitare la definitiva deportazione (luglio 1944).
Qualche anno dopo (sempre casualmente) raccolsi altri particolari da una parente, forse una nipote, dell’anziana ormai scomparsa. La bambina sarebbe stata riportata ai tedeschi il giorno dopo, forse per timore di rappresaglie. Fatto sta che emerse nel racconto una precisa responsabilità delle Suore Elisabettiane (incaricate di occuparsi della cucina del campo di concentramento) nel “restituire” Sara agli aguzzini. Ricordo che il controllo del campo di Vò Vecchio, uno dei circa 30 istituiti dalla R.S.I. di Mussolini, era affidato a personale di polizia italiano (presenti anche alcuni carabinieri). Invece la lapide sulla facciata della villa in memoria di quanti non ritornarono (posta soltanto nel 2001) ne parla come di un evento avvenuto “durante l’occupazione tedesca” senza un accenno alle responsabilità del fascismo italiano.
Il tragitto dei 43 Ebrei da Vò Vecchio verso la soluzione finale è ormai noto e ben documentato. La macchina burocratica funzionava alla perfezione e la pratica di ognuno dei deportati proseguì regolarmente grazie a decine di anonimi complici, esecutori senza volto.
Fatti salire su due camion, vennero prima richiusi nelle carceri Padova e poi inviati a Trieste, nella Risiera di San Sabba. Tappa definitiva, Auschwitz.
Quanto alla bimba, si chiamava Sara Gesses (doveva avere sei o sette anni, ma alcune fonti parlano di dieci) e, questo l’ho saputo solo recentemente, venne riportata a Padova con la corriera (quella di linea) dal comandante del campo in persona, Lepore (in alcuni scritti viene definito “più umano” rispetto al suo predecessore). Anche al momento di salire sulla corriera Sara si sarebbe ribellata, avrebbe pianto, gridato, forse scalciato. Vien da chiedersi come il zelante funzionario abbia poi potuto convivere con il ricordo di questa creatura condotta al macello. Ma in fondo Lepore non era altro che una delle tante indispensabili rotelline dell’ingranaggio, un cane da guardia addomesticato, servo docile incapace di un gesto sia di ribellione che di compassione. Pare che un maldestro tentativo di giustificarsi sia poi venuto da parte delle suore che dissero di aver agito in quel modo “per riportarla insieme alla mamma”. L’ipocrisia a braccetto con la falsa coscienza.
In precedenza, insieme ai genitori, la bambina era stata catturata vicino al confine con la Svizzera durante un tentativo di fuga e quindi riportata nel padovano. Sembra anche che la madre riuscisse a farla scivolar fuori dal finestrino di un’altra corriera, quella che dal carcere di Padova stava portando i prigionieri a Trieste. Purtroppo invano. Sara venne immediatamente ripresa dagli sgherri nazifascisti.
In Polonia la maggior parte dei 47 deportati (tra cui Sara) venne immediatamente “selezionata” per le camere a gas. Solo una decina venne momentaneamente risparmiata e di questi solo tre sopravvissero.
Sara che non aveva incontrato nessun “giusto” sul suo cammino venne avviata alla camera a gas appena scesa dal convoglio 33T sulla rampa di Birkenau, nella notte tra il 3 e il 4 agosto agosto 1944.
La sua “morte piccina” (come quella della bambina di Sidone cantata da De André) rimane un delitto senza possibile redenzione, ma di cui dobbiamo almeno conservare la memoria.
Gianni Sartori
(settembre 2014)
Grazie Gianni per questo ricordo incredibilmente terribile. Ne ero a conoscenza, so che il parroco di Vo’ Vecchio aveva parlato dell’episodio allo storico padovano professor Selmin che ne scrisse qualcosa: credo esista un libretto in proposito nella sede della famigerata villa. I particolari sono pochi e confuse le giustificazioni (se mai ci furono) delle suore. Di certo viene da dire che, se una figlia non viene reclamata dalla madre in procinto di partire, è evidente che c’è qualcosa di strano. Se una bambina si è nascosta e la mamma non l’ha cercata è evidente che il motivo è quello di salvarle la vita da una probabile brutta fine. Ma questo ragionamento, evidentemente, la madre superiora non lo fece o fu tanta la paura di rappresaglie da indurla a riconsegnare la piccola. Mi viene anche da dire che, una volta partiti i prigionieri, nessuno sarebbe mai tornato indietro a reclamare una bimba mancante. Secondo me non ci sono giustificazioni che tengano, tanto più per un simile gesto compiuto da una religiosa.
leggendo queste atroci righe non posso non pensare che questi individui erano italiani. erano nati nelle nostre città, uno di loro giocava in cortile con mio padre che pensava che fosse un imbecille, e poi ha scoperto che oltre che imbecille era anche sadico e criminale leggendo le notizie sui giornali. sfatiamo quindi la leggenda (autoreferenziale) che ci vuole un popolo buono e caritatevole. abbiamo commesso atrocità indicibili da secoli e per secoli e lo abbiamo fatto noi, noi italiani, e di questo dovremmo vergognarci tutti e non pensare che siano stati “gli altri” i fascisti eravamo noi, magari non lei e non io, ma noi italiani e sempre noi italiani abbiamo massacrato popoli interi durante le guerre fatte sia in europa che in altri continenti e di questo dovremmo fare atto di contrizione e chiedere perdono a quanti abbiamo fatto soffrire, ma farlo in nome del Paese e del Popolo intero, non addossandone la responsabilità ad una ristretta parte.
Rispondo a Franco. Sono perfettamente d’accordo nel giudizio generico sull’errore nel considerare l’Italia innocente rispetto ai crimini di guerra. Su questo blog tempo addietro ho anche elencato alcuni di tali crimini compiuti dall’esercito italiano durante le guerre di conquista del secolo scorso (“Italiani brava gente”). Ma non me la sento di dire che gli italiani come popolo intero sono stati correi di tali efferati crimini: 1) c’erano anche gli oppositori che certo non applaudivano a guerre e massacri 2) i cittadini che appoggiavano il regime non venivano certo informati sui dettagli delle conquiste, sui metodi, sui massacri, su impiccagioni e bombardamenti coi gas, su torture. Manipolare l’informazione, per ogni regime, è fondamentale per dirottare il consenso del popolo. Allora non c’era Internet e vigeva la censura: non doveva essere facile conoscere i retroscena della politica. Mia nonna mi raccontava che sotto il fascismo non c’erano violenze e omicidi: per forza, i giornali mica ne parlavano! Quindi se non avevi parenti o amici che ti raccontassero episodi differenti di prima o seconda mano, la realtà era quella edulcorata che ti veniva presentata in ogni circostanza e con ogni mezzo ufficiale.
daccordissimo su quello che dice, il mio commento (forse non mi sono spiegato bene) era volto a non indicare come colpevole alle volte un Popolo intero ed alle volte la fazione che dei crimini si è macchiata. e lo dico specialmente ora con i fatti palestinesi. non possiamo attribuire ai Palestinesi attiterroristici ascrivibili solamente a Hamas e suoi sostenitori così come non possiamo chiamare “gli Israeliani” un gruppetto o gruppone che sia di fanatici integraliasti
Sono d’accordo. Bisognerebbe sempre specificare, ma non è possibile farlo. Come si fa a dire: nella seconda guerra mondiale gli eserciti dei governi di 51 Paesi hanno combattuto contro l’esercito del governo della Germania, distinguendo così le opposizioni interne, i cui fautori pure furono costretti a combattere? Molto più normale semplificare, anche perché le decisioni dei singoli governi si traducono in azioni dei singoli Stati e quindi dei loro cittadini…
Dopo una lettura del genere si rischia di perdere la fiducia nel genere umano. Invio questa testimonianza, sicuramente antitetica, per ristabilire in parte un equilibrio…ora e sempre Resistenza
GS
UN RICORDO DI MARIA CERVI
(Gianni Sartori)
Avevo intervistato Maria Cervi (figlia di Antenore, uno dei sette fratelli Cervi fucilati dai fascisti nel dicembre 1943) nel giugno del 2007 per una serie di articoli in vista del convegno “Il sapore giovane della resistenza” e ci eravamo lasciati con l’impegno di rivederci in quella occasione (domenica 24 giugno 2007). L’incontro era stato organizzato a Vicenza nell’ambito di Festambiente, ma purtroppo Maria ci aveva lasciato pochi giorni prima della manifestazione vicentina. Inevitabilmente questa sua testimonianza (forse la sua ultima intervista) ha finito per acquistare un valore particolare.
D. Qual è, a suo avviso, l’importanza, l’attualità della Resistenza per la democrazia nel nostro paese?
R. Per me la Resistenza è ancora, nei fatti, il momento della nascita della Repubblica, della rifondazione democratica. Non sono invece convinta che questa consapevolezza sia presente in tutta la popolazione. A volte mi sembra venga dato per scontato. Forse non è stato fatto abbastanza per conservare la memoria di quanto è avvenuto.
Temo che in questi ultimi sessant’anni ci siamo un po’ “distratti” e ora i risultati si vedono. D’altra parte penso anche che negli ultimi anni (diciamo dal cinquantesimo al sessantesimo della Resistenza) ci sia stata una ripresa, un recupero sia da parte delle istituzioni che dei partiti, della scuola…
D. Da questo punto di vista, il sacrificio dei fratelli Cervi resta un esempio ancora molto significativo. Ritiene sia importante anche per i giovani?
R. Parlando con molte delle persone che vengono al museo mi sembra di capire che resta un esempio emblematico. In maggioranza i visitatori sono giovani, soprattutto studenti. Il fatto di voler sapere, visitare la casa, lasciare dei “segnali” esprime interesse, attenzione. Evidentemente rimane un segno molto forte. Anche andando in giro per l’Italia in occasione di conferenze o manifestazioni scopro continuamente sale, circoli, scuole …a loro dedicati. Talvolta rimango stupita perché la cosa va ben oltre quello che mi sarei aspettata. Incontro molte persone che conoscono sia i loro nomi che episodi della loro vita, come quello del trattore e del mappamondo…
D. Ce ne può parlare?
R. Nel 1939 (io avevo cinque anni) comprarono un trattore, all’epoca un elemento sicuramente innovativo dato che nessuna azienda di piccole dimensioni lo possedeva. Al momento dell’acquisto si fecero regalare un mappamondo, un simbolo di modernità ma anche di cultura, della volontà di scoprire il mondo, gli altri popoli…E molti mi chiedono “ma dov’è il trattore, dov’è il mappamondo?” con un riferimento preciso, molto diretto. Oggi sono entrambi conservati nel museo gestito dall’”Istituto Nazionale Alcide Cervi”.
Il trattore è stato la scelta ultima, preceduta da un lungo percorso di innovazione per adottare sistemi nuovi di coltivazione. Tutta la loro vita era indirizzata in questa direzione. C’era stata, per esempio, la scelta della coltivazione di prato stabile per intensificare la produzione di latte e quindi del parmigiano. Risaliva al 1938 un progetto di abbeveraggio automatico per le mucche. Qui da noi negli anni trenta il pascolo non esisteva più e non c’erano quasi più gli abbeveratoi. L’acqua veniva portata nelle stalle con i secchi, un lavoro assai faticoso. Prima di installare l’abbeveratoio, completarono l’ampliamento delle stalle. Quando nel 1934 (io avevo tre mesi) andammo ad abitare in questa casa dove ora c’è il museo, c’era la possibilità di tenere solo otto capi di bestiame. Nel 1943, al momento del loro arresto, ce n’erano cinquantasei.
D. Possiamo dire che la famiglia Cervi rappresentava un fattore di discontinuità rispetto alla situazione tradizionale nelle campagne?
R. Le loro iniziative erano circondate sia da curiosità che da perplessità da parte degli altri contadini. Rientrava nel loro atteggiamento anche la a scelta, nel 1934, di lasciare la mezzadria per diventare affittuari, per avere maggiore libertà. Ritenevano che l’affittuario, una volta pagato l’affitto, fosse più libero di agire, di innovare. Il proprietario di questa casa era un medico condotto che acconsentiva a questi interventi. L’ampliamento delle stalle venne fatto in “acconto d’affitto”.
D. Contemporaneamente cresceva anche il loro impegno politico. Come ebbe inizio?
R. La formazione della loro coscienza politica comincia ancor prima del ’34. C’erano dentro di loro questi valori di giustizia sociale, di libertà. Dicevano che non era giusto “se noi stiamo bene e gli altri no”. Naturalmente ci furono alcuni episodi determinanti. Nel ’29 Aldo, mentre era militare, venne ingiustamente condannato a cinque anni di carcere che poi diventarono due anni di confino a Gaeta. Qui avvenne l’incontro, sicuramente importante, con alcuni esponenti politici confinati. Al ritorno di Aldo ci fu un confronto con gli altri fratelli e fu in quel periodo che diventarono comunisti.
D. Quali erano i valori della famiglia Cervi?
Era una famiglia di cattolici praticanti e alcuni di loro cominciarono a chiedersi come portare avanti quei valori, con coerenza. Un altro momento importante risale al 1936 quando Ferdinando venne richiamato dall’esercito per andare in Africa. La nostra famiglia non era d’accordo, dato che non riteneva giusto andare a combattere contro un altro popolo. Da parte di Ferdinando ci fu anche un intenso confronto con il suo confessore, in chiesa. Lo zio non si lasciò convincere e infatti non andò in guerra. Con questi avvenimenti comincia la loro ribellione al fascismo, ma soprattutto lo studio, l’elaborazione…Il nonno (“papà Cervi” nda) diceva che “loro non erano cambiati, avevano solo cambiato strada”. Forse pensavano che certi valori non erano abbastanza difesi. Talvolta è necessario anche qualche sacrificio, come appunto con la Resistenza, un maggiore impegno per la Pace, la libertà, soprattutto per la democrazia. Questi principi non devono ridursi a dei “piccoli monumenti” belli e importanti; devono anche essere vissuti, messi in pratica.
Mi è piaciuto il messaggio del presidente della Repubblica a capodanno. Parlando della partecipazione ha citato Giacomo Olivi, un partigiano fucilato a Modena nel ’44, quando scrisse “Non dite di essere stanchi”. E’ un richiamo che porto sempre con me e, quando posso, cerco di trasmetterlo, soprattutto ai giovani. In fondo è lo stesso messaggio di don Milani quando diceva “mi riguarda, me ne devo occupare”. Ecco, forse oggi è questo l’aspetto più preoccupante: il distacco, l’indifferenza, la mancanza di prospettiva.
D. Ha parlato di “papà Cervi”. Cosa ricorda dei suoi nonni?
R. Il nonno era iscritto al Partito popolare dal 1924. Al museo abbiamo conservato la sua tessera firmata da don Luigi Sturzo. Alla fine i valori guida erano gli stessi. C’è chi ha creduto di continuare a difenderli in un modo e chi ne ha cercato un’ altra strada. E’ significativo poi che le “due strade” si siano ritrovate nella Resistenza.
Anche mia nonna Genoeffa è morta cattolica praticante, nell’ottobre 1944, dieci mesi dopo la fucilazione dei suoi figli. E anche lei aveva avuto i suoi “momenti di ribellione”. Si era appena sposata e nella stanza dove dormivano, pioveva regolarmente dal tetto in cattive condizioni. Lei, per quanto timorosa, aveva chiesto invano al padrone di ripararlo. Allora ha fatto un bel buco nel pavimento, in modo che l’acqua cadesse proprio sul letto dei padroni che dormivano nella stanza sottostante. Naturalmente il tetto venne riparato prontamente.
Mia nonna non ha neanche voluto dare “l’oro e il rame per la Patria” come chiedeva Mussolini.
Diceva che “non è giusto dar via la fede che mi ha donato mio marito”. C’era quindi questo senso innato della giustizia da cui non ci deve discostare.
Gianni Sartori
Grazie per questa testimonianza Gianni.
I PARTIGIANI NON ERANO CERTO MIGLIORI; ANCHE LORO TORTURAVANO I FASCISTI PRIGIONIERI. C’ERA UNA GUERRA CIVILE E QUINDI L’ODIO FRA LE DUE PARTI IMPERVERSAVA.
spesso specialmente nelle cosidette guerre civili, che di civile hanno ben poco, e hanno ben poco anche della guerra, non si assiste a scontri di armati contro armati, ma più spesso ad un’infierire di vili contro inermi e questo fa sì che di eroico in quegli eventi vi sia sempre ben poco. Andrebbero dimenticati come una vergogna nazionale.
Verissimo. Ma dimenticare non credo sia giusto: e non per mantenere vivi sentimenti di vendetta, ma per conoscere ciò che di buono e di cattivo è accaduto. Anche per imparare dagli orrori, perché non si ripetano.
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Grazie Roberto per questa preziosa ricostruzione. L’abbiamo utilizzata, citando la fonte e ringraziandoti, per allargare il dibattito in corso a Firenze in questi giorni: a due anni dalla strage fascista di Piazza Dalmazia che ha visto morire due ragazzi e a pochi giorni da un pestaggio di Casa Pound in pieno centro. Questo il link http://altracitta.org/2013/11/12/la-squadra-della-labbrata-la-storia-per-i-fascisti-fiorentini-e-solo-cronaca/
Grazie a te. La speranza è che crudeltà di questo tipo non si ripetano più, da qualsiasi parte provengano.
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